Verme


Questa è la quarta parte di un racconto diviso in sette capitoli, uscito a puntate nel 1928 sulle pagine dell’Evening Times. L’ho tradotto facendo del mio meglio e ho anche pensato ad un’immagine per illustrarlo. In questo post ho raccontato le bizzarre circostanze in cui lo rinvenni in un mercatino nel 2015. Buona lettura!

(trascrizione della registrazione effettuata dal dittafono di Sir Arthur)

Sir Arthur: Un codice, evidentemente. Credo non ci sia nulla di più complesso di un cifrario di Vigenere. Viene scelta una parola (in gergo, si chiama verme) che si utilizza per mettere in chiave un testo.

Signora Watson: E come si fa per decodificare il messaggio?

Signorina Theot: Oh, è facile.

Sir Arthur: Lei conosce il cifrario di Vigenere?

Signorina Theot: Ovviamente. Supponiamo che io voglia mettere in codice il messaggio “Ci vediamo alle sei al Dirty Dicks” utilizzando come verme il suo nome, Arthur. Nell’alfabeto inglese, la lettera C, la prima di Ci, è la terza, per cui C vale 3; la A di Arthur è invece la prima, e quindi vale 1. Sommiamo 3 ed 1 ed otteniamo 4, quindi la prima lettera del messaggio in codice è la D. A questo punto passiamo alla I che, nell’alfabeto inglese è la, lasciatemi pensare, sì, la numero nove, mentre la R (la seconda lettera di Arthur) è la numero [mormorio] sì, la 18. Diciotto e nove fa ventisette, ma le lettere dell’alfabeto inglese sono solo ventisei, quindi si ricomincia da capo, e ventisette corrisponde ad A. Invece di scrivere Ci, dunque, scrivo Da, la prima parola del messaggio cifrato, e così via. Per decifrare la scrittura, basta svolgere le operazioni al contrario.

Signora Watson: Sì, purché si sappia qual è il verme.

Sir Arthur: Esatto. E solo John potrebbe saperlo…

Signora Watson: Non solo lui, a dar retta a te.

Sir Arthur: Cosa vuoi dire?

(dal diario della signorina Theot)

A quel punto, la signora Watson mi ha chiesto di prendere in mano il libro.

Quando l’ho fatto, l’unica cosa che ho udito è stata la voce del dottore che mi diceva “Piccadilly Circus”. Non sono stata capace di comprendere perché voleva portarmi lì, fino al sogno di questa notte.

Mi trovavo in una biblioteca illimitata, o addirittura infinita (la chiamerò la biblioteca di Babele), dove si trovava qualunque cosa gli esseri umani abbiano mai scritto o anche solo pensato di scrivere. Tra tutti i libri, identici, che erano al suo interno ne sceglievo uno, e tra le sue pagine non trovavo altro che righe piene di caratteri privi di senso (ricordo ad esempio blitiri bubabaff), tranne uno, che recitava:

“Burlington Arcade: un luogo che non ha rivali riguardo il lusso”.

Mi sono svegliata, ed ho contattato sir Arthur; egli è giunto trafelato a casa mia, e gli ho chiesto se, per caso, a Londra, nei pressi di Piccadilly Circus, si trovasse un luogo con quel nome, e che si attagliasse a quella descrizione. Me lo ha confermato, e meno di un minuto dopo eravamo sulla sua carrozza, diretti dalla signora Watson; in capo ad un quarto d’ora, tutti e tre ci trovavamo di fronte al cupo ingresso di quel luogo che non credo sia necessario descrivere a nessun londinese del bel mondo. Qui, un nuovo ricordo del mio sogno mi ha colpito: ero di fronte ad una mostruosa, tentacolare edizione dell’Enciclopedia Britannica, le cui pagine continuavano a moltiplicarsi man mano che io le sfogliavo; pure, da essa riuscivo a leggere, e ricordavo quanto avevo letto, e così ho recitato, mentre sir Arthur tirava frettolosamente fuori di tasca un taccuino ed una matita per appuntarsi quanto dicevo:

(dagli appunti di sir Arthur)

Burlington Arcade è una galleria commerciale di Londra, che collega Bond Street a Piccadilly, passando per i Burlington Gardens (donde il nome). La struttura rappresenta l’archetipo della galleria commerciale e dei moderni centri commerciali. La galleria fu commissionata da Lord George Cavendish.

(dal diario della signorina Theot)

Non appena ho pronunciato questo nome, il fantasma di colui che lo portava, il fratello del quinto conte del Devonshire, è apparso.

(dagli appunti di sir Arthur)

Lord Cavendish [in tono soave]Cosa ve ne pare di questo luogo, che ho costruito apposta per la gratificazione del pubblico e per dare lavoro a donne industriose?

Signorina Theot Perché solo a donne, Lord Cavendish, e non anche ad uomini? [con tono di irrispettoso rimprovero] E comunque, è stata forse qualche donna industriosa, o qualche uomo, a chiederLe di farlo?

Lord Cavendish [piccato e sarcastico]: Vedete quel palazzo lì, Burlington Palace? Mi costò una fortuna comprarlo, nel 1815; ed ancor di più mi costò quell’architetto, Ware, che me lo sistemò perché fosse il mio piccolo paradiso personale… e dopo aver sborsato tutte quelle sterline, cosa ti scopro? Che il muro del più bel giardino di quel palazzo confina con il vicolo dove si dà appuntamento la peggior feccia di Londra! Uomini rozzi, sporchi, che mentre sono lì a godermi i miei alberi ed i miei fiori lanciano oltre il muro ogni sorta di nefandezza, torsoli, gusci d’ostrica, bottiglie… una volta un gatto morto! Non potevo accettarlo, voi capite, non io! Lo so, avrei potuto far battere quella teppa, ma sarebbe stato molto poco elegante, non credete? E così, decisi di acquistare il vicolo e fare un regalo alla città di Londra: feci sfrattare chi ci viveva, e lo riempii di negozi dove solo il meglio di questa città (gente come me, insomma) avrebbe potuto non solo comprare, ma anche solo [calcando con la voce] entrare! Ed ecco, vedete, gli effetti di quella mia decisione continuano a tutt’oggi! Non è meraviglioso?

(dal diario della signorina Theot)

Ho guardato i due Beadles che montavano la guardia all’ingresso, ed ho trattenuto a stento il desiderio di chiedergli se avesse voluto costruire una galleria commerciale, o piuttosto un carcere. Gli ho risposto invece, semplicemente: “Sono sicura che un giorno ci sarà un nome per quel che avete fatto, Lord Cavendish”; ed in quel momento, spaventandolo, accanto a lui è comparso un altro spettro, emaciato, macilento, che ha sussurrato una sola parola.

“Gentrification”.

(continua…)


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