“A LondoNerD’s Progress” – Dalla musica dei Caravan ad uno dei musei più incredibili di Londra

13 Lincoln’s Inn Fields – Tube: Holborn

“Waterloo Lily’s got enough to turn us all on
Got a bra to fit a car
A port upon her back you warm your feet on

A corset keeps her in
So when you pull a string it lets it all out
Lily Waterloo, Piccadilly blue”

In materia di musica sono sempre arrivato qualche decennio dopo, lo ammetto. Intorno ai 14 anni ho vissuto la mia personalissima Beatlemania a scoppio ritardato, trascorrendo interi pomeriggi ad imparare a memoria e a suonare al pianoforte ogni singola canzone dei quattro di Liverpool, anche la più sconosciuta. Pane e Beatles per almeno un paio d’anni, dunque, condividendo questa passione con Ivan, Ciccio e Claudio: ci si scambiava le musicassette, si malignava spesso e volentieri nei confronti della perfida Yoko Ono colpevole del loro scioglimento, si decideva di fondare un gruppo e di chiamarlo Glass Onions…

Insomma i Beatles sono stati per me la (solidissima) base, il testo sacro su cui ho poi cominciato a costruire la mia cultura musicale. Una volta metabolizzato il loro insegnamento (arrivando ad apprezzare anche brani non proprio fondamentali, tipo “Wild Honey Pie”!), a 16 anni ero finalmente pronto ad affrontare il mondo. E mentre i miei coetanei erano in delirio per gli eroi del grunge, Kurt Cobain ed Eddie Vedder su tutti, si abbandonavano allo sconforto totale sulle note dei Radiohead di Thom Yorke oppure prendevano posizione nella guerra tra Oasis e Blur, il sottoscritto, sempre in ritardo, scopriva le gioie del progressive rock.

Suites strumentali lunghe anche mezz’ora, passaggi presi in prestito (quando non rubati) alla musica classica, testi mai banali e nuovi strumenti come il moog e il mellotron.

Poco alla volta, cd dopo cd, cominciai a collezionare acquistandole in rigoroso ordine cronologico le discografie di Genesis (quelli dell’era Peter Gabriel!), King Crimson, Jethro Tull, Pink Floyd, Camel, Gentle Giant, Yes e tanti altri. Non disdegnavo d’altra parte il glorioso prog italiano: il Banco del Mutuo Soccorso, la Premiata Forneria Marconi, le Orme…

Unica regola: che fossero dischi usciti nel glorioso quinquennio 1969-1974. Dopo quelli dei Beatles, tutti questi album diventarono il secondo pilastro che ha plasmato i miei gusti in fatto di musica.

Se però devo scegliere il gruppo che ho amato maggiormente non avrei esitazioni e farei sicuramente il nome dei Caravan.

Nacquero nel 1968 dalle ceneri dei gloriosi Wilde Flowers, la band seminale della scena di Canterbury, quel sottogenere del progressive che nacque nella contea del Kent a metà anni ’60.

Nei ranghi dei Wilde Flowers si può dire che passarono tutti: Robert Wyatt (parleremo presto di lui su questo blog…), i fratelli Brian e Hugh Hopper, Kevin Ayers…  La band non pubblicò alcun disco, esistono soltanto alcune registrazioni quasi amatoriali pubblicate qualche anno fa, ma partorì due gruppi destinati ad un successo ben maggiore: i Soft Machine e appunto i Caravan, che nacquero nel 1968 con una lineup molto simile all’ultima incarnazione dei Wilde Flowers: Pye Hastings (chitarra e voce), Richard Sinclair (basso e voce), Dave Sinclair (organo), Richard Coughlan (batteria).

Ci sono due album che spiccano nella loro discografia, pubblicati rispettivamente nel 1971 e nel 1972.

Il primo è “In the Land of Grey and Pink“, considerato unanimemente il loro capolavoro.

Il Grigio e il Rosa del titolo sono i colori del cielo del Kent, quelli che Richard Sinclair ammirava al tramonto nel villaggio di Graveney, nelle pause delle prove ai tempi dei loro esordi.

Amo la copertina, che mostra un paesaggio ispirato ai mondi di Tolkien: è opera di una certa Anne Marie Anderson, di cui però su internet non si trovano notizie.  Per saperne di più ho contattato Joe McGillicuddy, che si occupò dell’artwork di questo album con la sua ROC Advertising. Joe si avvalse in più occasioni dell’apporto di Anne Marie Anderson: la talentuosa illustratrice purtroppo morì per un’overdose a soli 24 anni.

“In the Land of Grey and Pink” contiene una suite di 22 minuti che occupa l’intero lato B (“Nine Feet Underground”, intitolata così perché Dave Sinclair la compose quando viveva in un seminterrato) e altri brani eccellenti, come “Golf Girl” e “Winter Wine”. Ascoltare per credere…

L’anno successivo uscì “Waterloo Lily“, l’album che mi ha portato a scoprire l’ennesima meraviglia londinese.

Al posto di Dave Sinclair, che lascia per entrare nei Matching Mole di Robert Wyatt, alle tastiere arriva Steve Miller, che porta un tocco di jazz e di improvvisazione che rimanda ai Traffic e in qualche passaggio al Miles Davis di Bitches Brew. Il volume del basso di Richard Sinclair sale notevolmente ed è una gioia per le orecchie seguire le linee melodiche che disegna (ascoltate ad esempio “Nothing At All”). Intervengono come ospiti Lol Coxhill e Jimmy Hastings, il fratello maggiore di Pye, che regalano assoli di immensa bellezza. Con “Waterloo Lily” i Caravan perdono un po’ della grazia sognante dell’album precedente, diventano più ruvidi e aggressivi ma il livello rimane altissimo.

“The Love in Your Eye” è il brano più lungo del disco: parte melodioso e tranquillo, per poi esplodere in una forsennata cavalcata, con al centro un magnifico assolo di flauto di Jimmy Hastings. Il canale YouTube della band ha una versione live di questo pezzo con la formazione successiva a quella dell’album (durata lo spazio di pochi mesi), con Derek Austin all’organo e Stuart Evans al basso.

La canzone che da il titolo all’abum, “Waterloo Lily”, ha un testo intrigante e racconta di una prostituta londinese decisamente in carne, che lavora dalle parti di  Piccadilly.

Per la copertina del disco fu scelta un’incisione di William Hogarth, proveniente dal ciclo intitolato “A Rake’s Progress“: è questo il motivo per cui ho varcato la soglia di uno dei musei più affascinanti di Londra.

Il Sir John Soane’s Museum sorge in una elegantissima piazza poco distante dal British Museum: Lincoln’s Inn Fields. L’edificio fu la residenza del celebre architetto John Soane, che abbiamo già incontrato in un recente post (la sua tomba ispirò le cabine telefoniche disegnate da Sir Giles Gilbert Scott). Prima di morire decise di donare allo Stato la casa e la sua imponente collezione d’arte e di antichità, a patto che tutto fosse lasciato intatto e che il museo fosse fruibile per la collettività.

Il fascino di questo luogo sta nel susseguirsi di stanze molto diverse tra loro, poste su piani diversi e collegate da scale e passaggi che ricordano le atmosfere disegnate da Piranesi. Tutte hanno in comune una caratteristica: sono letteralmente zeppe di opere d’arte e di manufatti antichi!

Non c’è uno spazio vuoto: Soane aveva pensato a questa casa come una celebrazione della sua stessa vita di architetto e di collezionista. Quanto è esposto meriterebbe spazi più ampi, non sfigurerebbe di certo nelle sale del British Museum o della National Gallery ma quello che affascina il visitatore è proprio questo caleidoscopio di oggetti, la vertigine che si prova attraversando le stanze, sfiorando opere vecchie di millenni.

Tra i dipinti esposti troviamo tra gli altri il Canaletto, Turner, Reynolds e Watteau.

Ma io sono qui per William Hogarth e per la “Scena della Taverna” che compare sulla copertina di Waterloo Lily…

“A Rake’s Progress” è un racconto morale e descrive in otto dipinti eseguiti nel 1733 la storia di Tom Rakewell, un giovanotto che eredita una fortuna alla morte del padre e che la perde in pochi anni, percorrendo la pericolosa strada del vizio. Soane comprò la serie di quadri ad un’asta di Christie’s nel 1802.

Seguiamo passo per passo il cammino di Tom Rakewell verso il baratro…

1 – Il giovane, improvvisamente ricco dopo la morte di un padre molto avaro, ripudia Sarah, l’umile serva a cui si era precedentemente dichiarato. Lei piange, tenendo in mano l’anello che aveva ricevuto in dono. Un sarto, nel frattempo, prende le misure per un nuovo e costoso guardaroba.

2 – Tom e la sua ascesa in società. Il ragazzo è circondato da una serie di personaggi che verosimilmente vogliono approfittare di lui: un maestro di danze, un fantino, un musicista, un ex soldato che si offre come guardia del corpo.

3 – Ecco finalmente la scena che compare sulla copertina dei Caravan! Tom Rakewell è in un bordello, la Rose Tavern di Covent Garden che sarà smantellata nel 1776, ed è evidentemente ubriaco. Le prostitute hanno delle macchie nere sul viso, a coprire le piaghe causate dalla sifilide. Due di loro, approfittando dello stato dell’uomo, lo stanno derubando dell’orologio che segna le 3 di notte. Dietro di loro una donna di colore. Accanto a loro un’altra prostituta sputa del gin all’indirizzo di una compagna, mentre una coppia amoreggia incurante. Sullo sfondo una donna sta dando fuoco ad una grande carta geografica che reca la scritta “Totus Mundus”. Alle pareti le immagini di imperatori romani, tutti con il volto strappato eccetto quello di Nerone. Una cantante, incinta, intona una ballata sconcia e volgare. Insieme a lei c’è il cameriere del locale, famoso a quanto pare per la forza delle sue costole, che spesso metteva alla prova facendoci passare sopra le ruote di una carrozza. In primo piano si sta spogliando una donna, che a breve si esibirà: alla luce di una candela ballerà nuda su un grande piatto posto al centro del tavolo.

4 – Tom, che ha ormai sperperato tutti i suoi averi, viene quasi arrestato. E’ l’intervento di Sarah, ancora innamorata di lui, ad evitarlo con il pagamento della cauzione.  Nel frattempo un monello ne approfitta per rubare il prezioso bastone dell’uomo, mentre il tizio sulla scala, addetto all’accensione dei lampioni, viene distratto dalla scena e fa cadere dell’olio sulla parrucca di Tom.

5 – Nella chiesa di Marylebone, allora conosciuta per ospitare matrimoni clandestini, Tom sposa una vecchia ma ricca megera, l’ultima carta che gli rimane per continuare la vita brillante a cui non vuole rinunciare. Il suo sguardo è puntato in direzione della giovane e graziosa serva, mentre sullo sfondo Sarah e la madre vengono trattenute a forza all’ingresso della chiesa.

6 – Siamo a Soho. Tom, privo della parrucca, ha perso tutto al gioco e maledice il suo destino. Ci sono altri individui sul lastrico come lui e un nobile che sta chiedendo denaro ad uno strozzino.

7 – Tom Rakewell è nella prigione di Fleet, riservata ai debitori. Mostra i primi segni di pazzia. La moglie lo insulta per aver sperperato anche i suoi quattrini mentre Sarah sviene dopo aver visto lo stato in cui versa l’uomo di cui è ancora (inspiegabilmente) innamorata.

8 – L’ultimo quadro è dedicato alla morte del protagonista, rimasto nudo e nuovamente calvo. Termina i suoi giorni al Bethlem Royal Hospital, il famigerato manicomio conosciuto anche con il nome di Bedlam, accudito da Sarah. Attorno a lui altri malati mentali, tra cui un individuo nudo che si crede un re con tanto di corona e scettro. Due donne dell’alta società osservano la scena: ai tempi era una pratica comune visitare i manicomi con lo stesso spirito con cui oggi si passeggia in un giardino zoologico.

“A Rake’s Progress” è questo e molto di più. Osservati con attenzione, gli otto dipinti di Hogarth nascondono altre decine di particolari. Il regista Alan Parker ha definito quest’opera un antenato del moderno storyboard cinematografico, una definizione perfetta.

Dai suoi dipinti lo stesso Hogarth ricavò una serie di incisioni che diventarono molto richieste. Come abbiamo visto una di queste, la scena della taverna, fu usata dai Caravan per “Waterloo Lily”. Una scelta molto felice.

Interpellato sulla genesi di questa copertina, Joe McGillicuddy non ricorda di chi fu l’idea, se fu sua o della band. Ricorda però che ricavò l’immagine da un libro d’arte che possedeva. Purtroppo non è stato in grado di ritrovarlo, dopo tanto tempo. Chissà se un giorno spunterà fuori dalla sua soffitta…

 

Oltre a Joe McGillicuddy, ringrazio moltissimo Tom Ryley, Communications Officer del Sir John Soane’s Museum che mi ha fornito le immagini degli interni e dei dipinti di Hogarth. Visitate il  sito del museo  ma ovviamente varcate la soglia di persona, non ve ne pentirete!

 

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