La nascita di Ophelia

7 Gower Street – Tube: Goodge Street


Iniziò tutto in un giorno alla fine del 1849, dalle parti di Leicester Square.

Walter Howell Deverell, un giovane pittore, era in compagnia della madre, intenzionata ad acquistare un nuovo cappellino. Varcarono entrambi la soglia di una modisteria in Cranbourn Alley. Mentre la signora Deverell veniva seguita da una commessa e provava diversi modelli, il figlio si aggirava annoiato nel negozio. Fu così che, attraverso una tenda semiaperta, gli cadde l’occhio nel retrobottega. Lì, intenta a cucire, c’era la ragazza che stava cercando da mesi, colei che sarebbe diventata Viola.

Deverell era infatti alle prese con “La dodicesima notte”, un dipinto ispirato all’omonima commedia di William Shakespeare. Aveva già trovato l’ispirazione per rappresentare tutti i personaggi ma la protagonista femminile non aveva ancora un volto.

La ragazza che aveva intravisto nel retrobottega aveva una bellezza soprannaturale, un volto puro e dei lunghissimi, magnifici capelli rossi. Si chiamava Elizabeth Siddal, aveva appena vent’anni ed era la figlia di un fabbricante di posate originario di Sheffield. Nata a Holborn, viveva con la famiglia a Southwark e lavorava appunto da qualche tempo nella modisteria di Cranbourn Alley.

Walter Deverell convinse la padrona del negozio a lasciarla posare per lui. Da quel momento la vita di Elizabeth Siddal cambiò.

Attraverso Deverell entrò infatti in contatto con la Confraternita dei Preraffaelliti, il gruppo di artisti fondato l’anno precedente in una casa georgiana al numero 7 di Gower Street, a Bloomsbury.

Era l’abitazione dei genitori di John Everett Millais, pittore di appena diciannove anni, membro della Royal Academy of Arts dall’età di undici. I fondatori della Confraternita furono sette, tra cui, oltre a Millais, Dante Gabriel RossettiWilliam Holman Hunt. Tutti più o meno ventenni.

Predicavano il ritorno alla pittura del Quattrocento italiano, quella appunto precedente alle opere di Raffaello Sanzio, e l’abolizione dell’accademismo che imperava nell’arte vittoriana. Avevano nostalgia di un passato immaginario e teorizzavano l’unione armoniosa dei concetti di vita, arte e bellezza.

Nel 1851 Millais iniziò a lavorare ad un dipinto ispirato ad una scena tratta dall’atto IV dell’Amleto: la morte di Ofelia.

Così Shakespeare descrive la tragica fine della giovane, resa pazza dalla morte del padre Polonio ucciso da Amleto che l’ha scambiato con il Re:

“C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente; laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli, di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine, un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa nel piangente ruscello. 
Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento. Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.

Anziché in Danimarca, Millais ambientò questa “morte fangosa” nella campagna del Surrey, dove trascorse ben cinque mesi, lavorando undici ore al giorno per sei giorni alla settimana. Fu necessario tutto questo tempo soltanto per dipingere lo sfondo del dipinto, sopportando mosche e zanzare e rischiando una denuncia per aver varcato i confini di un terreno privato. Verso la fine dell’anno arrivò poi un vento forte, che rischiò di farlo cadere nel fiume Hogsmill e lo costrinse a costruirsi un capanno fatto di arbusti per continuare a lavorare.

Rientrato a Londra all’inizio dell’anno seguente, arrivò il momento di chiamare a posare la giovane Elizabeth Siddal, nello studio al numero 7 di Gower Street.

Anche questa fase fu molto lunga, durò ben quattro mesi. In ogni seduta la ragazza, indossando un magnifico abito antico acquistato dall’artista, stava immersa in una vasca colma d’acqua, sotto la quale, essendo in pieno inverno, Millais aveva posto delle lampade ad olio. Il calore della fiamma manteneva tiepida l’acqua in cui Elizabeth stava immersa, immobile.

Ophelia, poco prima di morire, sta cantando. L’acqua del fiume la trasporta dolcemente, fino a che il vestito non diventa troppo pesante e la trascina verso la morte. Canta dolcemente, contornata dalle ghirlande che ha intrecciato lei stessa. Ognuno dei fiori e delle piante è il simbolo di qualcosa: le rose, il salice, le margherite, le violette, le ortiche. E i papaveri, che rappresentano il sonno e la morte.

Un giorno Millais, intento a dipingere, non si accorse che le lampade sotto la vasca si erano spente e che l’acqua era divenuta progressivamente gelida. Elizabeth resistette stoicamente, non parlò e non si mosse per tutta la seduta. Il risultato fu una seria bronchite che minò la sua salute già cagionevole.

Il padre della ragazza minacciò il pittore e ottenne infine un risarcimento di cinquanta sterline per le cure mediche.

Il dipinto, battezzato semplicemente “Ophelia”, fu presentato alla Royal Academy ma non ebbe un immediato successo. Anche John Ruskin, sostenitore appassionato dei Preraffaelliti, trovò qualcosa da ridire sull’ambientazione inglese del dipinto.

Ophelia trovò comunque un acquirente che pagò a Millais la somma di 300 ghinee. Nel 1894 il quadro fu comprato da Sir Henry Tate. Quando tre anni dopo egli inaugurò la “National Gallery of British Art”, poi Tate Gallery e oggi Tate Britain, il dipinto di Millais entrò a far parte della collezione.

Da allora la fama di Ophelia è cresciuta a dismisura e oggi è l’opera più amata dai visitatori. Non la si trova sempre al proprio posto, nella splendida sala dedicata al periodo 1840-1890: spesso è in viaggio per il mondo, in Giappone, in Australia, anche in Italia (l’anno scorso era al Palazzo Reale di Milano).

Qualche mese fa sono tornato ad ammirarla, non lo facevo da anni. Ogni volta è un tuffo al cuore, credetemi, soprattutto pensando a come continuò la vita di Elizabeth Siddal dopo aver posato per Millais.

Divenne la musa di Dante Gabriel Rossetti, che si innamorò di lei e cominciò a ritrarla compulsivamente: si calcola che l’abbia fatto almeno un migliaio di volte. I due si chiamavano vicendevolmente con un vezzeggiativo, “guggum”, e così si chiamano i volti di Elizabeth che Rossetti sfornava a ripetizione: guggums.

Le diede anche i primi rudimenti della pittura e la giovane dimostrò ben presto un talento raro, apprezzato anche da Ruskin, che acquistò le sue opere e cominciò a sostenerla economicamente.

Purtroppo la salute di Elizabeth Siddal cominciò a declinare e a questo si aggiunse una disgrazia: mentre era nel sud della Francia, per curarsi, fu raggiunta dalla notizia della morte del padre. Questo evento causò grossi problemi economici alla sua numerosa famiglia.

Allo stesso modo Rossetti era in ristrettezze da quando stava con Elizabeth, perché i suoi familiari non condividevano il fatto che lei venisse da una classe sociale inferiore e gli avevano tolto ogni sostegno. I due si sposarono a Hastings il 23 Maggio del 1860.

Elizabeth rimase incinta ma diede alla luce una bambina prematura, che nacque già morta. Questo evento, insieme alla scoperta dei tradimenti del marito con un’altra modella, Jane Morris, la fecero scivolare inesorabilmente nella depressione.

Morì per un’overdose di laudano (un oppiaceo che assumeva per alleviare il dolore) nella notte dell’11 Febbraio 1862, all’età di 32 anni.

Dopo molti anni si scoprì che Rossetti aveva distrutto una lettera d’addio, per evitare lo scandalo del suicidio e per poterle dare una sepoltura regolare.

Devastato dal rimorso, fece inumare insieme alla moglie una raccolta di poesie che aveva composto per lei. Negli anni successivi continuò ad evocarla nei suoi dipinti, come in questa rappresentazione della Beatrice dantesca.

Sette anni dopo la morte, la tomba di Elizabeth nel cimitero di Highgate fu aperta nottetempo, su invito dell’agente letterario di Rossetti, per recuperare l’unica copia manoscritta delle poesie. Rossetti aveva acconsentito all’operazione perché si trovava in pesanti ristrettezze economiche. Il plico fu recuperato dalle mani della defunta e subito disinfettato da un medico.

I presenti all’apertura della tomba raccontarono che il corpo di Elizabeth era intatto, la bellezza del volto inalterata, così come i lunghi capelli rossi che erano cresciuti a dismisura fino a riempire la bara.


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