Via Giovanni Francesco Napione, 2 – Torino, Italia
Torino, martedì 28 Agosto 1973.
I temporali del giorno precedente avevano momentaneamente spazzato via l’afa che da settimane stava soffocando chi era rimasto in città.
In prima pagina, quel giorno, La Stampa mostrava i protagonisti di una vicenda che stava tenendo con il fiato sospeso l’intero pianeta.
Erano i quattro giovani impiegati di una banca di Stoccolma presi in ostaggio cinque giorni prima dal 32enne Jan-Erik Olsson, dopo un tentativo di rapina andato storto.
Come a Torino, anche a Stoccolma in quei giorni faceva molto caldo. Alla radio imperversava “Ring Ring”, il primo singolo di successo di Björn, Benny, Agnetha & Frida, che di lì a poco sarebbero diventati gli ABBA. Negli stessi giorni gli strampalati e deliziosi Samla Mammas Manna sudavano in uno studio di registrazione, dando gli ultimi ritocchi a Måltid, il loro capolavoro.
Faceva un caldo asfissiante soprattutto nel caveau della Kreditbanken, all’interno del quale Olsson, insieme ad un complice e ai quattro ostaggi, era asserragliato dalla mattina del 23 Agosto. Faceva davvero un caldo infernale in quel corridoio lungo 16 metri e largo poco più di tre, buio e completamente rivestito di moquette. All’esterno, da cinque giorni, gli agenti di polizia e il mondo intero aspettavano l’epilogo di questa vicenda.
A pagina 5, invece, il quotidiano torinese annunciava l’improvvisa morte, il pomeriggio precedente, dell’architetto Carlo Mollino.
Carlo Mollino era uno di quei torinesi che erano rimasti in città per tutto il mese di agosto. “Aveva rinunciato alle vacanze per completare una serie di importanti lavori”, così scriveva La Stampa. Aveva un appuntamento alle 16 del 27 Agosto con un cliente nel suo studio, al numero 9 di via Cordero di Pamparato. Il cliente, dopo aver atteso invano nell’androne dell’edificio per una buona mezz’ora, aveva infine deciso di salire. Trovò il corpo di Mollino riverso nel corridoio: un infarto gli era stato fatale.
Terminava improvvisamente, all’età di 68 anni, l’esistenza di una delle figure più eccentriche del secolo scorso. Iniziava la sua vita ultraterrena, quella per cui si era da tempo attrezzato.
E’ quasi impossibile incasellare Mollino in una o più categorie: si legge spesso che fu architetto, designer, aviatore, sciatore, fotografo, corridore automobilistico. Tutto corretto, perché egli fu tutte queste cose, ma soltanto scavando in profondità si scopre il vero significato di questa ecletticità.
Una buona introduzione al mondo di Mollino è il filmato che segue, diviso in quattro brevi spezzoni: a parlare è Fulvio Ferrari, l’anima del luogo di cui sto per parlarvi.
Il mio primo incontro con Fulvio Ferrari risale a cinque anni fa. Ero a Torino da qualche giorno, stavo cenando in un’affollata piola con la mia compagna e ci stavamo interrogando su cosa avremmo potuto vedere la mattina seguente, ultimo giorno in città prima del rientro a casa.
Il giorno precedente avevo visitato il Teatro Regio ed ero rimasto ammaliato dalla platea che ricorda una conchiglia semiaperta, dal boccascena (quello originale!) che richiama un televisore, dall’incredibile lampadario (una “nuvola di luce”), dall’ingresso con il cemento armato immediatamente accostato al velluto rosso scuro.
E poi la maestria con cui era stato inserito un edificio contemporaneo e modernissimo sullo scheletro del precedente teatro settecentesco, andato in fumo a causa di un corto circuito nel 1936. Artefice di tutto questo, tra il 1967 e il 1973, un architetto torinese: Carlo Mollino. Avevo letto qualcosa su di lui, sapevo della fama di dandy, di “architetto puttaniere”, avevo visto alcune delle famose Polaroid… Ma le mie conoscenze si fermavano lì.
Quindi quella sera a cena, tra un tomino al verde e un piatto di tajarin, consultai internet per saperne di più. Saltò fuori che a Torino, a due passi da piazza Vittorio Veneto, esisteva il “Museo Casa Mollino”, privo però di sito internet e di indirizzo mail. C’era soltanto un numero fisso, che chiamai il giorno seguente. Mi rispose Fulvio Ferrari, che un’ora dopo ci aprì la porta di Casa Mollino.
Classe 1945, uomo carismatico, chimico prestato al design (fondatore nei primi anni ’70 di Solka B, piccola azienda che creava lampade sperimentali) ma anche ristoratore, gallerista e collezionista di modernariato. Fulvio Ferrari è senza dubbio il più grande conoscitore al mondo della vita e delle opere di Mollino.
Quella che io e Anna pensavamo sarebbe stata una semplice visita ad una casa-museo come tante, si rivelò da subito un’esperienza straordinaria, difficile da trasmettere a parole. Ferrari ci fece accomodare su un grande divano e cominciò a raccontare.
La vita di Mollino, gli edifici progettati (non molti, a dire il vero), gli aneddoti che meglio spiegano il suo genio. Davanti a noi c’era un tavolino basso ricoperto di grandi libri che uno dopo l’altro spalancava davanti a nostri occhi, per mostrarci il tale edificio, il progetto di una sedia, la straordinaria Bisiluro che disegnò e che corse a Le Mans nel 1955…
Mollino era ricco, enormemente ricco grazie alla fortuna accumulata dal padre, importante ingegnere. Per tutta la vita non ebbe alcuna preoccupazione economica e questo gli permise di dedicarsi totalmente alle proprie passioni: lo sci, il volo acrobatico, l’automobilismo. Scrisse la propria autobiografia romanzata all’età di 28 anni (Vita di Oberon, pubblicata a puntate su Casabella).
Il racconto di Fulvio Ferrari era quasi irreale, tanto era stupefacente, dalle sue parole emanava una passione enorme e noi eravamo stregati da quanto stavamo ascoltando, soprattutto quando si giunse al clou, ovvero al racconto dell’abitazione in cui ci trovavamo.
Una casa in cui Mollino non visse mai e della cui esistenza non era a conoscenza quasi nessuno. La pittrice Carol Rama, amica dell’architetto che viveva in via Napione al numero 15 – praticamente dall’altro lato della strada – era completamente all’oscuro del fatto che Mollino fosse diventato in qualche modo un suo vicino di casa.
Ma allora perché acquistare un intero appartamento, arredarlo completamente per poi non andarci a dormire nemmeno una notte?
Qui entra in gioco Fulvio Ferrari. Chimico di formazione, come ho già detto, abituato a montare e smontare le molecole, da ormai 20 anni fa la stessa cosa, aiutato dal figlio Napoleone, con le storie legate a Mollino. E’ merito loro se il suo straordinario messaggio è stato decodificato e oggi è fruibile a chi varca la soglia di via Napione.
Fulvio Ferrari incrociò Carlo Mollino all’inizio degli anni ’80, quando fu incaricato da Toni Cordero di cercare i rarissimi mobili da lui disegnati. All’epoca, a meno di 10 anni dalla morte, era un personaggio ormai dimenticato dai più. Una delle piste portò Ferrari in via Napione, 2. All’epoca la casa era diventata lo studio di un ingegnere, Aldo Vandoni, il quale sapeva dell’illustre proprietario precedente ma aveva acquistato l’appartamento quasi privo di mobili. Dopo la morte di Mollino, infatti, non essendoci eredi, lo Stato italiano aveva fatto un inventario e l’arredamento era stato in buona parte venduto.
Dal 1999, anno in cui Vandoni andò in pensione e gli cedette l’appartamento, Fulvio Ferrari ha iniziato un certosino lavoro di ricomposizione degli arredi, così come risultano nel meticoloso inventario del 1973. Ha rintracciato e ricomprato mobili finiti in capo al mondo, ha ricevuto segnalazioni, indizi, rivelazioni, si è trasformato in un “archeologo del moderno” che è riuscito a riportare l’appartamento allo stato in cui era il giorno della scomparsa di Mollino. E’ diventata la sua missione.
Le storie sono certamente più difficili da maneggiare rispetto alle molecole. Il passo successivo è stato quello di trovare il significato di questa singolare abitazione. La traccia l’ha trovata nel frontespizio di un libro pubblicato da Mollino nel 1949 ma scritto 6 anni prima: “Il messaggio dalla camera oscura”. E’ il primo e unico libro in cui affronta il tema della fotografia, dopo di questo non scriverà più una riga sull’argomento. Scattò immagini per tutta la vita, prima con una Leica e poi con una Polaroid.
Per Mollino la fotografia era strumentale ai suoi interessi: immagini di interni negli anni ’30 e ’40, influenzate dal surrealismo; efficaci illustrazioni all’interno del suo libro dedicato al discesismo; fotomontaggi e collage in cui cavalli bianchi galoppano di fronte ai suoi edifici; infine le innumerevoli Polaroid con centinaia di donne, vestite e messe in posa da Mollino stesso.
Tutto è razionale, tutto è progetto, niente è lasciato al caso.
Nel frontespizio de “Il messaggio dalla camera oscura”, apparentemente slegata dal resto del libro, c’è una piccola immagine della testa della regina egizia Taja, moglie del faraone Amenophis III.
La Camera Oscura del titolo non è dunque soltanto quella in cui nasce l’immagine fotografica. E’ la cripta della piramide, quella in cui il faraone sarà tumulato alla fine dei suoi giorni.
“In questa mia tarda maturità sto preparando, come il cinese di rango fa ornare in vita il suo mausoleo, in un corridoio della mia casa, una specie di viale del tramonto laddove in sequenza stanno le fotografie e quant’altri ricordi della mia vita: tutti belli o quasi”. Così scriveva al sovrintendente del Teatro Regio pochi mesi prima di morire.
Eccolo, il corridoio. E’ quello che porta alla stanza finale della casa, quella in cui c’è un letto a forma di barca, necessario al trapasso, che lo trasporterà in una città opulenta dove trascorrere l’esistenza nell’aldilà.
C’è una parete ricoperta di farfalle colorate, simbolo della rinascita dopo la morte. Le Polaroid di Mollino – la loro serialità, il fatto che non furono mai mostrate a nessuno – chiudono definitivamente il cerchio: le donne che lui fotografava erano il tentativo di completare la visione di se stesso, gli fornivano la parte mancante, quella femminile, per arrivare pronto al giudizio finale. Come tante farfalle accuratamente scelte e preparate, così Mollino collezionava le amanti, tutte diverse ma prive di personalità. Le catturava con il mirino della Polaroid, abbigliate con i vestiti che lui stesso acquistava: era intrigato dall’aspetto tassonomico di questa caccia.
Le storie si montano con più difficoltà rispetto alle molecole, è vero. Ma adesso tutto torna.
Sono tornato a Torino nella primavera di quest’anno, dopo uno scambio di mail con Fulvio Ferrari. In una di esse egli accennava ad un paio di aneddoti riguardanti Londra, che però avrebbe preferito raccontarmi di persona…
Una mattina di fine aprile ho dunque suonato nuovamente il campanello di via Napione e con molta sorpresa mi sono reso conto che stava per iniziare una visita guidata della casa con tre persone già presenti, sedute nel salotto. Invitato ad unirmi a loro, non me lo sono fatto ripetere! A distanza di cinque anni ho fatto la stessa esperienza della Meraviglia, forse addirittura più forte perché già conoscevo una parte di quanto stavo vedendo ed ascoltando.
Al termine della visita, congedati i tre ospiti, Fulvio Ferrari mi ha concesso una breve intervista, per raccontarmi gli aneddoti londinesi di cui mi aveva parlato. Lascio a lui la parola.
Il giudizio finale a cui siamo chiamati fa sì che dobbiamo sfruttare ogni minuto della nostra esistenza terrena per cogliere e, quando possibile, divulgare la Bellezza. Bellezza che per Mollino consiste essenzialmente nella Natura: quella che entra nell’appartamento di via Napione affacciato sul Po, il giardino di rose che manda i suoi profumi attraverso le grandi vetrate del salotto, gli alberi frondosi delle gigantografie che stanno ai lati del caminetto in stile Luigi XV.
“Carlo Mollino è l’utensile con cui decifrare la propria vita” – mi dice Fulvio Ferrari al momento del congedo – “La frequentazione quotidiana, la continua attenzione per quello che lui ha fatto, sono per me capitoli di una scuola sublime a cui ho avuto la fortuna di accedere. Mollino può aprire porte incredibili.”
Stoccolma, martedì 28 Agosto 1973. Dopo sei giorni di assedio, la polizia fece penetrare del gas lacrimogeno all’interno del caveau, costringendo Olsson e il suo complice ad arrendersi. Gli ostaggi furono liberati, incolumi. Nei giorni successivi furono affiancati dagli psicologi, i quali si accorsero ben presto che i quattro giovani, durante la prigionia, avevano sviluppato un atteggiamento positivo nei confronti dei banditi, temendo invece quello che avrebbe potuto far loro la polizia. La tragicità della situazione, l’assedio dall’esterno avevano cementato il rapporto tra gli ostaggi e i carcerieri, uniti dalla comune condizione di prigionia. Di lì a poco il criminologo svedese Nils Bejerot avrebbe dato a questa forma di dipendenza psicologica il nome di sindrome di Stoccolma.
Il giorno prima dell’epilogo di questa vicenda moriva improvvisamente Carlo Mollino.
Quattro giovani svedesi uscivano segnati per sempre da un buio caveau, da una orribile Camera Oscura. Un geniale architetto torinese era invece da poche ore entrato nella sua, sapientemente apparecchiata da tempo.
Museo Casa Mollino – Tel. 011.8129868
Ti è piaciuto questo articolo e non vuoi perdere i prossimi? Iscriviti alla newsletter di The LondoNerD: riceverai un avviso via mail ogni volta che un nuovo post sarà pubblicato.