I tre di Hungerford Bridge

Hungerford Bridge – Tube: Embankment

Quello che segue è il classico racconto rimasto nel cassetto per anni. Lo scrissi nel 2012, ispirato dal Fight Writing a cui avevo assistito qualche giorno prima durante pordenonelegge. Le regole del Fight Writing sono semplici: ti viene mostrata una fotografia e hai 45 minuti di tempo per inventare di sana pianta un racconto breve che la stessa ti ispira. Ieri, dopo quasi 6 anni, “I tre di Hungerford Bridge” sono rispuntati fuori per puro caso.

Per chi non fosse pratico di Londra, si tratta del ponte ferroviario che collega la stazione di Charing Cross con Southbank.
Un ponte piuttosto anonimo, in verità, costruito nel 1864 dalla South Eastern Railway. Niente a che vedere con il revival gotico del Tower Bridge, con l’eleganza insuperata di Albert Bridge o la solennità istituzionale di Westminster Bridge. Hungerford Bridge è un semplice ponte che da ormai un secolo e mezzo svolge notte e giorno il suo umile compito. Un ponte a capriate, di ferro e mattoni, perennemente percorso dai treni che entrano o lasciano Charing Cross, avvolto dallo stridore incessante dei freni, pervaso da quell’odore che, dopo anni da pendolare, avevo iniziato a odiare. L’odore di ferrovia, difficile da rendere a parole, un misto di corrente elettrica, di piante clandestine cresciute tra i binari, di carbone retaggio di tempi andati. A volte odore di piscio. Ogni stazione ha il suo odore e io da quasi 25 anni raggiungevo Londra ogni mattina partendo da Tonbridge, 50 minuti di viaggio fino a Charing Cross e poi attraversavo Hungerford Bridge a piedi, per raggiungere l’ufficio dove lavoravo, a due isolati dallo Shell Centre.
Pochi anni prima, su entrambi i lati del ponte, erano sorte due passerelle pedonali, chiamate Golden Jubilee Bridges.
Ecco, in quel tardo pomeriggio di ottobre eravamo proprio su una di queste due passerelle, più precisamente quella che lascia il Victoria Embankment e conduce i pedoni su Southbank, per capirsi quasi ai piedi di quel parto infelice che risponde al nome di London Eye.
Camminavo in testa al gruppetto dei tre, provando a sfoggiare l’espressione disinvolta che mi era stata imposta in maniera autoritaria dall’ultimo della fila pochi minuti prima.
In realtà, la mia impressione era che ad aver aperto bocca fosse stata la Smith & Wesson calibro 38 che adesso era zitta ma vigile all’interno della tasca del giubbotto del suo proprietario. Un giamaicano di trent’anni circa, con una straordinaria somiglianza con Peter Tosh. Avevo avuto il piacere di conoscerlo poco prima, appena uscito dal Princess of Wales di Villiers Street, quella strada pedonale che affianca la stazione, sempre brulicante di pendolari e di turisti che da Trafalgar Square decidono di raggiungere il Tamigi per affacciarsi dalla sponda e ammirare chissà cosa.
Stavo bevendo una pinta di ale con Clive. Clive è quello in mezzo nella foto, l’ometto più anonimo e pacato che si possa immaginare. Davvero, Clive è la quintessenza della banalità, la trasposizione in carne ed ossa del grigiore umano.
Detto questo, Clive è un buon uomo, padre di famiglia, moderatamente tifoso del Charlton Athletic, tiepido elettore tory, frequentatore ogni estate per una settimana del solito hotel a tre stelle sul lungomare di Brighton. Una scialba moglie di mezza età, una casetta a Croydon e due figli di cui non parlava quasi mai.
Non eravamo soliti andare insieme al pub ma quella sera gli avevo proposto una pinta per discutere una proposta che, in qualità di capoufficio, avevo fatto circa una revisione dell’organigramma. Era mia intenzione proporre ai superiori una promozione per Clive, per metterlo alle mie dipendenze. Apprezzavo la sua obbedienza, il fatto che non metteva il becco a meno che non gli fosse esplicitamente richiesto.
Quello che però non sapevo è che Clive fosse uno spacciatore. Lo venni a sapere al termine di tutta questa storia ma nel frattempo rimasi a bocca aperta quando, appena usciti dal pub, fummo avvicinati dal sosia di Peter Tosh. In mezzo a decine di persone fece luccicare per qualche secondo la canna del revolver davanti agli occhi di Clive e disse qualcosa come “Hai cercato di fottermi, amico, eh?”
Clive deglutì vistosamente e mi rivolse uno sguardo che implorava pietà. Pareva un agnellino destinato al macello.
Peter Tosh (lo chiamerò così) fece un cenno con la testa verso il fiume e fu piuttosto chiaro che voleva che entrambi ci incamminassimo davanti a lui.
E fu così che, in una fila ordinata, con passo regolare, cominciammo a percorrere il ponte.
Non era il momento ma mi innervosii comunque, come facevo ogni mattina, per la presenza di decine di lucchetti lungo i moderni cavi d’acciaio. Davvero era una moda che non sopportavo, chissà da quale Paese sottosviluppato era stata importata.
L’ordine era dunque questo: per primo io, sguardo assente e in stato confusionale; Clive, il cui volto non potevo vedere, ma di cui sentivo il respiro affannoso; Peter Tosh, con gli occhi neri e penetranti che mi scaldavano la nuca.
Un rapinatore, forse. Un disperato che sperava di condurci in un posto isolato sotto la minaccia della pistola per farsi consegnare i portafogli e poi fuggire.
Ma allora perchè Clive, singhiozzando, mi chiedeva scusa a bassa voce mentre camminavamo incalzati dal giamaicano?
“Perdonami Jim, ho fatto un piccolo sgarro e…”
Uno sgarro? Si riferiva al fatto che avevo dovuto pagargli la pinta perchè aveva dimenticato in ufficio il portafogli? La cosa non mi aveva offeso, non lo avevo mai considerato un tirchio. Inetto e amorfo, magari. Ma tirchio no, la pinta gliel’avevo offerta volentieri. Sgarro doveva riferirsi a qualcos’altro.
Possibile che conoscesse Peter Tosh? Uno scialbo impiegato di una ditta di spedizioni che aveva intrallazzi con un nero giamaicano che al novantanove per cento veniva da Brixton?
Eppure i due sembravano conoscersi bene. “Hai provato a fare il furbo, Clive, e adesso pagherai. Tu con il tuo amico panzone”.
E fu qui che improvvisamente, sorprendendo me stesso, persi la testa. “Panzone” a me non lo doveva dire, davvero no. Avevo passato gli ultimi mesi frequentando Fitness First un giorno sì e uno no, sputando sangue con il corso di spinning, un’ora di corsa alla domenica mattina, i percorsi in mountain bike vicino a High Rocks. Tutto per dimagrire, sentirmi sufficientemente in forma per chiedere un appuntamento a Sandra, la collega bionda del quinto piano.
Per la cronaca avevo perso poca roba, non ero sceso sotto la soglia dei 120 chili. Ma quanta fatica avevo fatto lo sapevo soltanto io! E adesso il primo fottuto sconosciuto coi rasta e gli occhiali a goccia si permetteva di chiamarmi “panzone”?
Successe tutto in un attimo. Mi girai verso di lui, gli occhi iniettati di sangue e le mani pronte ad afferrargli il collo.
Dovevo essere una visione mostruosa perchè Clive si fece da parte atterrito. D’altra parte i 120 chili facevano il paio con il mio metro e novantacinque abbondante di altezza. Feci un passo verso Peter Tosh e lui tentò di estrarre la Smith & Wesson che però gli si incastrò nella tasca. Con violenza tentò di tirarla fuori ma la zip del giubbotto era fuori uso. Fu un attimo, dicevo. Resosi conto che era spacciato, vedendo che in quel momento avrei potuto ucciderlo a mani nude, Peter Tosh non trovò di meglio da fare che lanciarsi in acqua.
Dopo un volo di una decina di metri trovò l’eterno riposo sulla prua di una barca carica di giapponesi. Che non mancarono di immortalare con le loro macchine fotografiche gli ultimi istanti del giamaicano con il collo spezzato.

Dell’attività di pusher del mio collega Clive all’interno dell’azienda parlerò magari un’altra volta, è una storia troppo lunga.
Per il momento vi basti sapere che proprio quel giorno avevo ricevuto un sonoro e umiliante rifiuto da Sandra, la collega bionda del quinto piano. Anzi, era ormai una ex collega. La mattina successiva avrei rimesso mano all’organigramma: per lei avevo in mente un immediato trasferimento nella nostra incantevole succursale di Newcastle.

La fotografia che ha ispirato il mio racconto si intitola “Coming to get you” ed ė stata scattata il 29 Maggio 2011 da Andrew Mason: potete ammirare i suoi lavori su www.andrew-mason.com.

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