23b Frith Street – Tube: Leicester Square
Quella del 1997 fu un’estate memorabile. Non avevo ancora 20 anni e per la prima volta partivo per l’Inghilterra con un ruolo diverso da quello dello studente. Ero infatti stato scelto da don Berti, il carismatico fondatore del TGS Eurogroup, per essere uno dei cinque leaders che avrebbero accompagnato 24 ragazzi di 15-16 anni durante la loro vacanza-studio a Tonbridge, nel Kent. Con la stessa associazione ero partito due volte come studente e negli anni successivi avrei ripetuto l’esperienza di accompagnatore.
Uno dei ricordi più vivi è il fatto che in quel periodo c’era un cd che entrava più spesso degli altri nelle fauci del mio instancabile lettore portatile Panasonic, comprato l’anno prima in quella che era all’epoca la mecca dell’elettronica, Tottenham Court Road.
Il cd in questione era uscito in aprile ed era il secondo album dei Supergrass, “In It for the Money”. Ancora oggi è uno dei dischi che ascolto senza stancarmi e continuo a ritenere i Supergrass il gruppo che suonava meglio e il più sottovalutato tra tutti quelli emersi a metà di quel decennio, etichettati grossolanamente sotto il nome di Britpop.
In quel periodo era in pieno svolgimento una guerra sanguinosa tra i fans degli Oasis e quelli dei Blur e i nostri ragazzi di Tonbridge parteggiavano in egual misura per gli uni o per gli altri. Io cercavo di mediare, proponendo la soluzione che secondo me avrebbe messo tutti d’accordo: i Supergrass. Più spavaldi, più goliardi, più imprevedibili. E poi le enormi basette di Gaz Coombes… che stile!
Non ebbi molto successo. Quando è in corso una guerra è molto difficile smuovere chi si è già schierato. Chi invece era neutrale e amante della musica di qualità era Manuela. Qualche anno più grande di me, era anche lei nel quintetto degli accompagnatori e in Italia insegnava inglese. La vittima perfetta: non solo la convinsi (credo per sfinimento!) che i Supergrass erano la band del momento ma mi aiutò anche a trascrivere e a tradurre i testi delle canzoni.
Quella che io e Manuela preferivamo cantare era senz’altro “Cheapskate”…
E infine arrivò inesorabile il 13 Agosto, il giorno del mesto ritorno in Italia dopo quasi quattro settimane.
Qualche tempo dopo ricevetti per posta un piccolo pacchetto. Devo averla ancora da qualche parte, quella audiocassetta con la strepitosa compilation di brani scelti per me da Manuela: ricordo la bellissima “Mary Jane’s Last Dance” di Tom Petty e ricordo che aveva inserito anche la nostra immortale “Cheapskate”. Ma la canzone che non conoscevo affatto e che mi piacque all’istante era un pezzo dei Dire Straits, intitolato “Wild West End”.
Dimenticate gli anni ’80, la fascia da tennista sulla fronte, i polsini di spugna e le canottiere. Nel 1978, l’anno in cui uscì questa canzone, Mark Knopfler era già piuttosto stempiato ma indossava sobrie camicie con il collo alla coreana e non aveva ancora raggiunto il successo planetario del decennio successivo. I Dire Straits erano ancora quelli delle “terribili ristrettezze” (è questa la traduzione del nome della band) e il loro primo album era fatto di canzoni che raccontavano i loro problemi: problemi con le donne, problemi con il (poco) denaro, problemi esistenziali.
“Wild West End” è una magnifica dichiarazione d’amore a Soho, alle sue strade e alle sue donne. Descrive un angelo tra la folla di Shaftesbury Avenue, la bigliettaia dell’autobus numero 19, con i capelli unti e le unghie dei piedi dipinte di rosa, Mandy la spogliarellista che danza davanti al protagonista in un infimo locale.
La canzone inizia così:
Stepping out to Angelucci’s for my coffee beans
Checking out the movies and the magazines
A waitress she watches me crossing from the Barocco Bar
I get a pickup for my steel guitar
Angelucci. Quel cognome italiano mi incuriosì, fin dal primo ascolto. Manuela mi spiegò che Knopfler aveva voluto omaggiare con quella strofa la piccola bottega di Soho dove ai tempi si riforniva regolarmente di caffè.
Quando tornai a Londra negli anni successivi, purtroppo, non mi passò mai per la testa di andare in cerca di Angelucci. L’ho fatto quest’anno e ho scoperto una storia affascinante.
Per prima cosa la bottega di Angelucci al 23b di Frith Street non esiste più dal 2008.
Oggi i pochi metri quadri su cui si estendeva fanno parte di un ristorante della catena Balans Soho Society, che occupa l’intero angolo con Old Compton Street.
Ma ripercorrere la carriera di Alfredo Angelucci e della sua famiglia significa anche ripercorrere un pezzo fondamentale della storia della città e di Soho in particolare: quella dell’espresso italiano.
Il caffè era arrivato a Londra molto presto: già nel 1652 apriva un primo locale che lo serviva in St. Michael’s Alley, nella City. Le coffee houses vennero presto soprannominate “penny universities”, dato che a quel prezzo veniva servita una tazza ed era possibile leggere i quotidiani e partecipare a stimolanti discussioni ed occasioni di confronto. Non è un caso che istituzioni britanniche come i Lloyds o lo Stock Exchange nacquero davanti ad una tazza di caffè bollente.
Parallelamente nacque in Inghilterra la passione per il tè, tuttora considerato bevanda nazionale.
Il caffè, però, tornò di moda prepotentemente a metà del secolo scorso, quando a Soho aprì il primo espresso bar di tutta la Gran Bretagna. Ad inaugurarlo, nel 1953, una diva italiana del cinema di quegli anni: Gina Lollobrigida. Si chiamava Moka Bar e sorgeva al numero 29 di Frith Street.
Fu un successo enorme: finalmente i teenagers, troppo giovani per entrare nei pubs, avevano un luogo dove incontrarsi e da quel giorno locali come il Moka Bar cominciarono a spuntare come funghi in giro per Soho e non solo. Furono uno dei motivi per cui a metà decennio esplose la cultura giovanile che avrebbe cambiato per sempre la società britannica.
Poco distante, qualche anno prima, aveva aperto un altro locale ormai mitico, tuttora un’autentica istituzione di Soho: il Bar Italia.
Luigi e Caterina Polledri, originari di Piacenza, erano già proprietari di un locale a Covent Garden ma nel 1949 decisero di spostarsi in Frith Street, nel cuore del quartiere, con l’idea di servire un buon caffè (una rarità a Londra a quei tempi) ma di creare allo stesso tempo un punto d’incontro per la comunità italiana. Camerieri in pausa tra un turno e l’altro, connazionali appena arrivati a Londra e in cerca di impiego, nostalgici del Bel Paese… il Bar Italia era (ed è ancora) il loro ritrovo preferito.
E’ inoltre un porto sicuro per i nottambuli di Soho che cercano un po’ di ristoro: chiude la serranda alle 5 del mattino per riaprire appena due ore dopo, pronto ad affrontare un nuovo giorno.
“There’s nothing better than sitting outside the Italia early morning, creamy cappuccino to hand, watching Soho wash away its sins from the night before and waiting excitedly for the whole world to pass by your table.” (Paolo Hewitt)
L’interno è stato rinnovato più volte e contiene ancora i mobili originali in fòrmica del 1949 ma soprattutto serve ancora la stessa miscela di caffè, segreta quanto la ricetta della Coca-Cola. Nel corso degli anni al Bar Italia si sono presentati molti importanti produttori italiani, stendendo tappeti rossi per ottenere il ruolo di fornitore ma la famiglia Polledri non ha mai ceduto: la miscela segreta che serve ai suoi clienti dal 1949 è quella prodotta dalla bottega di Angelucci, che era a pochi metri di distanza dal locale. Una scelta dettata da un grande senso di lealtà, quella di non cedere alle lusinghe dei colossi, ma anche dal fatto che il caffè che si beve qui è davvero eccellente!
“A. ANGELUCCI – COFFEE SPECIALISTS”: così recitava l’insegna del negozio. Il logo, tre cherubini che servono una tazza di caffè, sono tre dei figli del fondatore, Alfredo Angelucci, che iniziò l’attività nel 1929.
Da allora l’azienda è sempre rimasta in famiglia, anche oggi che si è spostata da Soho a East Finchley. Ho scritto una mail per avere qualche informazione e ne è nato uno scambio di messaggi con Georgina Angelucci, la nipote del fondatore, che mi ha raccontato molto sulla vita di suo nonno e mi ha fornito alcune delle fotografie che compaiono in questo post.
Alfredo Angelucci, originario di Formia, si era trasferito molto giovane a Londra in cerca di fortuna. Aveva due grandi passioni: quella per l’antiquariato e quella per il caffè. Scelse di perseguire quest’ultima e nel 1929 aprì una bottega nel tratto di Frith Street compreso tra Old Compton Street e Romilly Street.
Dopo un anno soltanto traslocò poco distante, sempre in Frith Street, al numero 23b: sarebbe stata quella la sede per i successivi 80 anni. Gli affari erano già ben avviati (fu lui il primo a importare nel Regno Unito le macchine da caffè Gaggia) quando nel 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale e Alfredo Angelucci fu coinvolto suo malgrado in una delle pagine più tristi e meno conosciute di quegli anni.
Per timore dello spionaggio, infatti, la Gran Bretagna decise di internare e successivamente deportare in Canada i cittadini maschi di origine italiana. Non ci fu distinzione tra militari, prigionieri di guerra o semplici civili. Furono rastrellati nell’intero Paese e caricati a bordo di una nave da crociera requisita a questo scopo, la Arandora Star. Molti di questi italiani erano immigrati da decenni e lavoravano stabilmente nel Paese, tanto che alcuni avevano addirittura figli o nipoti che combattevano nell’esercito britannico.
La nave salpò da Liverpool il 1° Luglio del 1940, con a bordo 1500 prigionieri, tre volte di più del numero di passeggeri consentito. Tra di loro c’era anche Alfredo Angelucci, prelevato brutalmente dalla sua abitazione nel nord di Londra . Dopo un giorno di navigazione in direzione del Canada, mentre era al largo delle coste irlandesi, la Arandora Star fu colpita dai missili di un sommergibile tedesco che l’aveva scambiata per un mercantile inglese. Affondò in poco più di mezz’ora.
Le scialuppe di salvataggio erano largamente insufficienti e morirono così 865 uomini.
Alfredo Angelucci fu tra quelli che si salvarono ma la lunga permanenza nell’acqua fredda dell’oceano provocò seri danni al suo cuore. Ritornato a Londra, riprese a lavorare nella sua bottega ma morì prematuramente per un infarto una decina di anni dopo.
La foto seguente, scattata da Chris Windsor, ritrae il padre di Georgina, uno dei figli di Alfredo. All’età di 16 anni, rimasto orfano, ereditò l’azienda e la condusse con passione fino al 2015, anno in cui morì all’età di 80 anni.
La zia Alma, oggi 87enne, dà ancora una mano in negozio a Jim, il fratello di Georgina.
La specialità della casa si chiama Mokital, è una miscela segreta ed è preparata lavorando i chicchi in deliziosi e datati macinacaffè.
Non vedo l’ora di tornare a Londra per dirigermi a East Finchley e varcare la soglia di Angelucci’s. Sento già l’aroma delizioso del caffè che mi invade le narici…
Stepping out to Angelucci’s for my coffee beans…
In quest’epoca in cui sembra che avere tra le mani la tazza di Starbucks sia il massimo del prestigio sociale, volete mettere il sapore di una capatina da Angelucci’s?
Un ringraziamento speciale a Georgina Angelucci, che mi ha aiutato a ricostruire la storia della sua famiglia. Il negozio si trova oggi a questo indirizzo: 472 Long Lane, East Finchley, London, N2 8JL (http://www.angeluccicoffee.co.uk/)
Allo stesso modo ringrazio Manuela, per avermi introdotto tanti anni fa alla Londra di fine anni ’70 cantata dai Dire Straits. Senza di lei e senza la sua compilation questo post non avrebbe mai visto la luce.
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