via Caio Cestio, 6 – Roma, Italia
“Questa di Marinella è la storia vera
Che scivolò nel fiume a primavera
Ma il vento che la vide così bella
Dal fiume la portò sopra a una stella”
(Fabrizio De André, La Canzone di Marinella)
È un pomeriggio afoso di fine agosto. Raggiunta la stazione Piramide, il vagone della metro B su cui sto viaggiando spalanca le sue porte e con un po’ di riluttanza devo abbandonare il fresco dell’aria condizionata per ritrovarmi in poco tempo nell’inferno di piazzale Ostiense.
Sole cocente, tram sferraglianti, automobili e motorini ovunque. Di fronte a me c’è la sagoma bianchissima della Piramide di Caio Cestio. So che devo girarci attorno per raggiungere la mia meta. Quello che ignoro è che, una volta varcato l’ingresso del Cimitero Acattolico di Roma, tutto cambierà radicalmente.
I rumori si affievoliscono fino a sparire del tutto e anche la temperatura sembra più accettabile, all’ombra dei cipressi, dei pini e dei mirti che crescono al riparo delle Mura Aureliane.
Entro nel piccolo bookshop e mi procuro con pochi euro un agile libretto con all’interno la pianta che mi servirà ad individuare il monumento funebre per cui sono venuto fin qui.
Ma prima di consultare la mappa mi lascio rapire dalla bellezza di questo luogo. La parte più antica del cimitero, quella che sorge proprio alla base della Piramide, è un grande prato con qualche sepolcro che spunta ogni tanto e le panchine all’ombra che permettono di godere di una vista senza pari.
E di fare conoscenza con la colonia felina che vive nel perimetro del cimitero, accudita da amorevoli gattare.
Non posso certamente trascurare i celebri defunti che riposano qui, i personaggi per cui questo cimitero è visitato da gente proveniente da ogni parte del mondo.
Il poeta romantico John Keats, ad esempio, morto di tubercolosi nella sua casa di piazza di Spagna all’età di appena 25 anni.
Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”.
Il suo contemporaneo Percy Bysshe Shelley, annegato in un naufragio nel mare di fronte a Lerici nel 1822, non ancora trentenne.
Antonio Gramsci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia. Italiano e battezzato cattolico, l’autore dei “Quaderni del carcere” fu sepolto qui in quanto sposato con Giulia Schucht, cittadina sovietica di confessione ortodossa.
L’inquilino più recente del cimitero è lo scrittore Andrea Camilleri, scomparso il mese scorso all’età di 93 anni.
Poi vado in cerca dell’Angelo del Dolore (Angel of Grief), il monumento funebre scolpito nel 1894 dallo scultore americano William Wetmore Story. Contiene i suoi resti, quelli dell’amatissima moglie Emelyn e del figlioletto Joseph, morto a Roma nel 1853 a soli 6 anni.
Infine posso dirigermi verso la tomba per cui sono qui oggi, che è poco distante, soltanto qualche gradino più in basso.
E’ opera dello scultore inglese Richard Westmacott III e all’apparenza non sembra celare niente di interessante. E’ un tozzo parallelepipedo con due figure in bassorilievo: un angelo che indica il Paradiso mentre solleva una fanciulla che sembra emergere dall’acqua.
Quello che mi affascina è la storia che nasconde questo monumento funebre.
E’ la storia di una ragazza di 15 anni che lasciò Londra per venire a Roma e qui trovò tragicamente la morte. Si chiamava Rosa Bathurst.
Correva l’anno 1824 e la giovane Rosa era da qualche mese nella Città Eterna, ospite degli zii Lord e Lady Aylmer, nel pieno quello che all’epoca era un obbligo per i giovani rampolli delle classi più abbienti: il Grand Tour.
Orfana di padre (Benjamin Bathurst era un diplomatico inglese scomparso misteriosamente in Prussia durante una missione in cui viaggiava in incognito, all’età di 25 anni), Rosa viveva in Inghilterra con la madre Phillida, un fratello e una sorella.
Era giunta a Roma alla fine dell’anno precedente e non aveva impiegato molto tempo per mettersi in luce nelle occasioni mondane a cui era stato invitata. Era bella, brillante, intraprendente e anche un’ottima amazzone.
La sera del 15 marzo 1824, durante una festa a Palazzo Farnese, fu eletta reginetta e in tale veste propose per il giorno successivo una gita a cavallo sulle rive del Tevere.
Stava arrivando la primavera dopo un inverno molto rigido e il tepore di quei giorni stava finalmente sciogliendo la neve sulle montagne da cui nasce il fiume. Aggiungiamo il fatto che quella notte la pioggia era stata incessante. La mattina del 16 marzo, quando i cavalieri si radunarono in piazza di Spagna, c’era il sole ma tirava anche un vento piuttosto forte.
Partirono in carovana in direzione del fiume e quando furono all’altezza di Ponte Milvio trovarono un ostacolo che li costrinse ad una deviazione su un sentiero piuttosto stretto. Fu qui che Mercurio, il cavallo di Rosa, perse la presa per colpa del fango e cominciò a scivolare lunga la scarpata, verso il fiume.
Lady Aylmer scese subito dalla sella e tentò invano di afferrare la mano di Rosa. In pochi attimi la ragazza e Mercurio caddero nelle fredde acque del Tevere. Anche Lord Aylmer provò a raggiungere la nipote e si tuffò con coraggio. Inutilmente, perché Rosa scomparve rapidamente, inghiottita da un gorgo. Il cavallo, invece, riemerse poco dopo e si salvò.
Le ricerche di Rosa Bathurst durarono per giorni, fu anche offerta una ricompensa di ben 50 sterline. Ma non servì a nulla: della fanciulla non si trovò alcuna traccia.
Devastati dalla tragedia, gli zii di Rosa lasciarono Roma e si trasferirono a Ginevra con la madre della ragazza e la sorella Emmeline.
Passarono i giorni e arrivò il mese di ottobre.
Due contadini, che camminavano lungo il fiume non lontano dal punto in cui era accaduta la disgrazia, si accorsero che dalla sabbia affiorava qualcosa di strano. Un lembo di tessuto di colore blu.
Sotto la sabbia c’era il corpo di Rosa Bathurst, che il limo del Tevere aveva conservato perfettamente. Era avvolto nel suo vestito blu, con il cappellino legato sotto il mento a nascondere i bei capelli biondi. Aveva ancora gli anelli alle dita. Era bellissima e sembrava stesse dormendo, a detta di chi la vide.
Naturalmente l’esposizione all’aria causò la rapida decomposizione del corpo ma questo miracoloso ritrovamento fece il giro di Roma e non solo. La tragica storia di Rosa Bathurst si diffuse in breve tempo.
Più di un secolo dopo, nel 1952, uscì un romanzo firmato da Giorgio Nelson Page, “Il racconto di Rosa Bathurst”.
C’è chi sostiene che questo libro finì tra le mani dell’adolescente Fabrizio De André (dodicenne all’epoca della pubblicazione del romanzo) e che potrebbe quindi avere ispirato uno dei suoi primi capolavori, “La canzone di Marinella”.
“[Il brano] È nato da una specie di romanzo familiare applicato ad una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.“
In un’intervista del 1997 rilasciata a Vincenzo Mollica, De André spiegava così la genesi della canzone.
Il giornalista Gino Castaldo, però, in un articolo scritto in occasione della sepoltura al Cimitero Acattolico del poeta beat Gregory Corso, sosteneva che l’ispirazione per il testo della canzone era proprio la fanciulla che da quasi due secoli riposa a Roma.
Chissà… non sapremo mai con certezza chi ispirò De André ma una cosa è certa: questa di Rosa Bathurst è la storia vera.
Questa di Rosa Bathurst è la storia vera
Che scivolò nel fiume a primavera
Ma il vento che la vide così bella
Dal fiume la portò sopra a una stella
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