1 Curzon Square – Tube: Hyde Park Corner
“Lightning wouldn’t strike the same place twice”. Un fulmine non colpirebbe due volte nello stesso luogo. Con questa risposta lapidaria il chitarrista degli Who Pete Townshend convinse il riluttante Harry Nilsson a dare in affitto l’appartamento numero 12 al civico 9 di Curzon Place.
I dubbi di Nilsson erano principalmente due: una tragedia che risaliva a quattro anni prima e il pedigree del nuovo inquilino.
Era l’estate del 1978 e Nilsson, musicista anche lui (interprete di brani celebri come Everybody’s Talking, Without You e la scanzonata Coconut), possedeva da qualche anno un pied-à-terre londinese nel quartiere di Mayfair.
Statunitense di nascita, in quel periodo era solito dividersi per lavoro tra Los Angeles e Londra e in entrambi i casi gli riusciva facile trovare amici con cui condividere la smodata passione per l’alcool. Fu lui il più assiduo compagno di sbronze di John Lennon durante l’esilio californiano dell’ex-Beatle, in seguito alla temporanea separazione da Yoko Ono. La foto seguente è datata 12 Marzo 1974.
Al Troubadour, celebre nightclub di Hollywood, Lennon bacia appassionatamente la sua assistente personale May Pang mentre in primo piano uno spento Harry Nilsson tracanna l’ennesimo Alexander. La serata finirà malissimo, con i due sbattuti fuori dal locale per aver molestato una cameriera e per aver insultato gli Smothers Brothers durante la loro esibizione.
Nilsson, nel 1972, era stato uno dei soci fondatori di un circolo privatissimo, gli Hollywood Vampires, il cui oggetto sociale è ben spiegato dalle parole di uno degli iscritti, Alice Cooper:
“Per entrare nel club bastava bere più di tutti gli altri membri. In una sera normale avrei potuto farmi una passeggiata e trovare lì John Lennon, Harry Nilsson, Keith Moon, travestiti come al solito da cameriera o da chauffeur. La settimana successiva avrebbero potuto esserci Bernie Taupin, Jim Morrison e Mickey Dolenz.”
Nei sei mesi all’anno che Nilsson trascorreva all’ombra del Big Ben, d’altra parte, non mancavano i pretesti e la compagnia per serate altrettanto sfrenate. L’appartamento di Curzon Place era in posizione strategica per raggiungere in poco tempo i luoghi del divertimento londinese, come ad esempio il Playboy Club.
Durante i soggiorni californiani Nilsson metteva volentieri l’appartamento a disposizione di amici che si trovavano a Londra per brevi periodi. Avvenne così per “Mama” Cass Elliot.
Dopo lo scioglimento dei Mamas and Papas nel 1968, la giunonica cantante aveva iniziato una brillante carriera da solista e nel luglio del 1974 si trovava in città per due settimane di concerti al London Palladium. Sette anni prima aveva avuto una piccola disavventura con la giustizia inglese, una notte in cella per un conto d’albergo non saldato e un paio di asciugamani rubati. La mattina seguente gli altri tre componenti del gruppo avevano atteso la sua liberazione all’esterno della stazione di polizia impugnando cartelli con la scritta FREE MAMA CASS.
La sera del 28 Luglio 1974, dopo l’ultimo concerto terminato con una standing ovation del pubblico, Mama Cass si ritirò nell’appartamento di Curzon Place. Morì nel sonno poche ore dopo, all’età di 32 anni. Il suo cuore aveva ceduto, stremato da anni di eccessi, di diete troppo drastiche e di immediati riacquisti di peso. Circola ancora la leggenda metropolitana che vuole Mama Cass soffocata da un sandwich al prosciutto: tutto falso, l’autopsia non rilevò tracce di cibo nella trachea nè tantomeno di droghe.
Harry Nilsson fu molto scosso da questa tragedia e cominciò a considerare maledetto l’appartamento di Mayfair. Quando, quattro anni dopo, si fece avanti un nuovo potenziale inquilino, il cantante era dunque molto restio ad accettare.
“Lightning wouldn’t strike the same place twice” – gli disse Pete Townshend. Un fulmine non colpirebbe due volte nello stesso posto. E fu così che nell’estate del 1978 al numero 9 di Curzon Place andò ad abitare Keith Moon, batterista degli Who e da più di un lustro compagno di baldoria di Harry Nilsson.
Raccontare in qualche riga la biografia di Keith Moon è un compito proibitivo, talmente tanti sono gli aneddoti che la costellano. Eccone alcuni…
Nel 1967, durante un’esibizione televisiva negli Stati Uniti, nascose all’interno della grancassa un’enorme quantità di esplosivo, dieci volte più del necessario. Al termine di “My Generation“ diede un calcio alla batteria e innescò la carica. L’esplosione fu terrificante, bruciacchiò i capelli di Pete Townshend e ferì lo stesso Moon: un frammento dei piatti gli si conficcò nel braccio.
Un’altra specialità era la devastazione delle stanze d’albergo, in particolare dei bagni, utilizzando esplosivi sempre più potenti, fino ad arrivare alla dinamite. “Tutti quei cocci di porcellana che volano per aria sono uno spettacolo piuttosto indimenticabile” – raccontava agli amici. Un giorno uscì dall’albergo e salì sulla limousine che doveva portarlo verso l’aeroporto. Dopo qualche minuto chiese all’autista di fare marcia indietro, spiegando che aveva scordato qualcosa. Salì nuovamente nella sua stanza, afferrò il televisore e lo scaraventò fuori dalla finestra facendolo precipitare nella piscina. Poi risalì a bordo sollevato. “Stavo per dimenticarmene” – disse all’autista.
Negli anni settanta la deriva di Moon divenne inarrestabile. Il naufragio del matrimonio con Kim e la morte accidentale del suo autista Neil Boland (fu Moon ad investirlo accidentalmente durante una rocambolesca fuga da un pub di Hatfield, inseguito da alcuni avventori infuriati) lo spinsero verso la totale autodistruzione. Basti pensare che arrivò ad iniziare la giornata con un’intera bottiglia di champagne, del cognac e una dose di anfetamine.
In ogni caso, al di là degli eccessi, Keith Moon è stato un batterista unico, fuori dagli schemi, creativo e animalesco.
Anni fa ho avuto la fortuna di scambiare due parole con Peter “Dougal” Butler, l’assistente personale che per una decina d’anni fu la sua ombra con il preciso incarico di limitare i danni e di tirarlo fuori dai guai. Nella foto seguente lo vediamo a destra, in uniforme, mentre porge un drink al bassista degli Who, John Entwistle. Keith Moon siede in poltrona, con un sorriso sornione.
Davvero strepitoso il ricordo del giorno dell’assunzione come assistente degli Who, che Butler racconta nel suo libro Full Moon (vi consiglio di leggerlo, ne vale la pena). Incontrò Keith Moon e John Entwistle per un colloquio negli uffici della Track Records di Old Compton Street e si salutarono con un formale “le faremo sapere”. Risalì in macchina e dopo qualche minuto, mentre era fermo ad un semaforo, fu affiancato da un’automobile. Al volante c’era Keith Moon. Butler abbassò il finestrino e Moon gli urlò “Benvenuto, sei assunto!” mentre gettava un fumogeno all’interno del suo abitacolo, ripartendo a tutta velocità. Butler rimase inebetito, ridendo come un matto mentre l’automobile si riempiva di un densissimo fumo blu!
Tra le altre cose, ho domandato a Butler se Keith avesse dei veri amici. “No, di veri amici ne aveva pochi: Ringo Starr, Harry Nilsson, gli altri membri degli Who… Io gli sono stato amico, con i nostri alti e bassi, per me non era un semplice datore di lavoro.“
Gli ho infine chiesto il titolo del brano degli Who a cui è più affezionato: ha risposto senza esitazioni che adora I Can’t Explain, uno dei primi singoli della band uscito nel 1964.
Ho fotografato l’esterno del civico 9 di Curzon Place (oggi 1 Curzon Square) un anno e mezzo fa, alle tre di notte. Ho scelto di scattare queste fotografie a quell’ora perché Mama Cass e Keith Moon morirono entrambi nel sonno, nella stessa camera e nello stesso letto, a distanza di 4 anni.
La sera del 6 settembre 1978, insieme alla sua compagna svedese Annette Walter-Lax, fu ospite di Paul e Linda McCartney alla prima del film “The Buddy Holly Story” e cenò con loro al Peppermint Park a Covent Garden.
Ritornarono al loro appartamento nel cuore della notte e lui si mise a guardare un film horror con Vincent Price, “L’abominevole dottor Phibes“. Chiese ad Annette di cucinargli una bistecca e delle uova, lei si rifiutò e lui le urlò: “If you don’t like it, you can fuck off!“. Furono le sue ultime parole. Ingerì 32 pastiglie di Heminevrin, un sedativo prescritto dal medico per combattere l’alcoolismo. Morì nel sonno poche ore dopo.
Pete Townshend si era dunque sbagliato: il fulmine aveva colpito per due volte nello stesso posto.
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