“L’urlo con cui ci si sveglia alla fine di un incubo”

33-35 Eastcheap – Tube: Monument


C’era una volta uno studente liceale che durante le ore di lezione si annoiava mortalmente.

Correva l’anno scolastico 1993/1994, avevo 16 anni e una spiccata predisposizione ad escogitare decine di sotterfugi per sopportare la pesantezza mortale di alcuni professori. Si salvavano in pochi, quell’anno, la maggior parte di loro era totalmente incapace di attrarre l’attenzione mia e quella dei miei compagni.

Una delle mie specialità era quella di fingere interesse, facendo un cenno del capo ogni tanto, con la penna che viaggiava veloce sulla pagina del quaderno. L’insegnante, dalla cattedra, osservava un ragazzo dalla faccia pulita, apparentemente attento e disciplinato.

E invece si sbagliava di grosso. Il ragazzo dalla faccia pulita che sedeva in ultima fila passava il tempo disegnando senza sosta.

Riempivo infatti fogli sciolti e interi quaderni con disegni fatti con la penna biro.

Il mio soggetto preferito era soltanto uno. Delle bizzarre torri di Babele che costruivo con pazienza e meticolosità, mescolando gli stili architettonici più diversi e rispettando una sola regola: la simmetria.

Partivo ovviamente dal basso, solitamente da un portone racchiuso tra due colonne e da un timpano di ispirazione greca. Poi avveniva l’imprevedibile. Mi allargavo a sinistra e poi a destra, disegnando in modo speculare porzioni di edificio dove comparivano altre porte, colonne, finestre, portici, archi a sesto acuto e archi a tutto sesto, contrafforti gotici e tetti parigini.

Il fabbricato, man mano che aggiungevo un nuovo livello, andava restringendosi, fino ad arrivare a una cupola, una guglia o un campanile.

Tutto rigorosamente simmetrico, tranne in cui alcuni casi che appartengono alla mia produzione più tarda, in cui Londra faceva già capolino.

C’è materiale per uno psicanalista, probabilmente.

Non ho davvero altri ricordi di quell’anno scolastico, ho totalmente cancellato le parole e, in alcuni casi anche le facce, di quei professori. Ho ben presente però le ore passate a disegnare centinaia di strani edifici.

Potete perciò immaginare il mio stupore quando molti anni dopo, mentre ero nella City di Londra per fotografare i due topolini e il pezzo di formaggio (la statua pubblica più piccola della città), girai l’angolo, imboccai Eastcheap e mi trovai di fronte a questa meraviglia.

Neogotica, bislacca, sinistra, perfettamente simmetrica. Sembrava uscita da uno dei miei quaderni. Era la realizzazione di una delle visioni oniriche di quando avevo sedici anni, era l’edificio che avrei voluto costruire.

Il numero 33-35 di Eastcheap fu ultimato nel 1868 su disegno dell’architetto Robert Lewis Roumieu, discendente di una famiglia ugonotta giunta in Inghilterra un secolo prima della sua nascita.

L’edificio gli fu commissionato dai padroni di quella che all’epoca era la più grande fabbrica di aceto del Paese, Hill, Evans & Co, con sede a Worcester. Quello di Eastcheap sarebbe stato il deposito londinese della ditta.

Roumieu cavalcò l’onda del revival gotico che stava attraversando l’Inghilterra in quegli anni ma, rispetto ad altre costruzioni già sorte in città, gli sfuggì un po’ la mano.

I cinque piani (più un attico sotto il tetto di ardesia) si susseguono caotici l’uno sull’altro, mescolando stili e materiali: mattoni a vista, inserti policromi, fregi ingesso, piastrelle, stucchi, finestre, tettoie.

Al di sopra della finestra centrale del secondo piano c’è l’effigie di un cinghiale la cui testa spunta minacciosa dall’erba, un riferimento all’antica Boar’s Head Inn che un tempo sorgeva qui.

Nel suo momento di massimo fulgore la ditta Hill, Evans & Co produceva ben due milioni di galloni di aceto all’anno. Ecco il perché dell’enorme e spaventoso ingresso con un arco a sesto acuto, esageratamente grande perché serviva a far passare i carri carichi di merce. Sembra una bocca spalancata, pronta ad inghiottire i passanti.

Nicholaus Pevsner descrisse questo edificio come “uno dei più folli esempi di gotico a capanna a Londra” e Ian Nairn rincarò la dose, definendolo “l’urlo che ti sveglia alla fine di un incubo”.

Nel 1868, dopo l’inaugurazione, il palazzo suscitò un certo scalpore. La mescolanza di stili, i dettagli in stile francese e veneziano non piacquero a tutti i critici. Ma questo non impedì di inserirlo nel 1971 nella lista di edifici protetti di grado II.

Oggi non custodisce più barili di aceto, dato che Hill, Evans & Co cessò l’attività nel 1965. Ospita uffici ai piani superiori e al piano terra un caffè e un locale specializzato in cocktails.

In mezzo ai grattacieli della City e ai palazzi anonimi che lo circondano, l’effetto che provoca al passante è sempre lo stesso: sembra “l’urlo che ti sveglia alla fine di un incubo”.

Come finì quell’anno scolastico ’93-’94? Mi beccai due materie a Settembre: Matematica e Fisica.

Un incubo da cui mi svegliai, senza urlare, due mesi e mezzo dopo, dopo aver passato l’esame di riparazione. Un incubo fatto di pochi disegni e di tante, tantissime ripetizioni private per buona parte dell’estate.


Ti è piaciuto questo articolo e non vuoi perdere i prossimi? Iscriviti alla newsletter di The LondoNerD: riceverai un avviso via mail ogni volta che un nuovo post sarà pubblicato.

One thought on ““L’urlo con cui ci si sveglia alla fine di un incubo””

  1. “C’è materiale per uno psicanalista, probabilmente”. Ammetto di averlo pensato anche io🤣. Ma a parte questo… caspita ma disegni benissimo!

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *