La scorsa settimana, terminata la pubblicazione a puntate del racconto scoperto per caso in una bottega di Camden Passage, mi ero reso conto che avrei dovuto dare qualche spiegazione ai lettori che si erano appassionati a questa storia così singolare. Lo farà l’autore del racconto, l’uomo che nel 1928 consegnò un manoscritto alla redazione dell’Evening Times e poi scomparve per quasi un secolo. Lascio dunque la parola al misterioso Gaberricci.
Scriveva Umberto Eco (purtroppo, non riesco a ricordare precisamente dove) che esiste una tipologia di citazione che potremmo chiamare “citazione inconscia” (la definizione è mia): è quella che si realizza quando un autore ne cita un altro senza sapere di star citando. Eco attribuiva questa forma di citazione ad una comune temperie culturale, ad un’idea che è “nell’aria” e viene colta e resa esplicita, con un ridotto scarto temporale, da due (o più) persone diverse.
Un sorprendente e curioso caso di “citazione inconscia” mi ha visto protagonista la scorsa settimana; devo tuttavia riconoscere che questo evento e quelli di cui parlava il grande intellettuale alessandrino mi sembrano profondamente diversi; quanto meno, mi sembrano profondamente diverse, pur non avendole ancora comprese appieno, le cause che li hanno originati e, soprattutto, la magnitudine con cui si sono manifestati.
Eco, infatti, definiva quella fattispecie in un articolo che parlava, appunto, della citazione, ossia (fonte Wikipedia) della
ripetizione di un’espressione che viene riportata in un testo da una persona diversa dall’autore.
L’utilizzo stesso del termine espressione fa capire come una citazione debba, evidentemente, essere qualcosa di breve; inoltre, l’uso stabilisce che la fedeltà all’originale della citazione può anche non essere perfetta. La “citazione inconscia” di cui ho intenzione di mettervi a parte, invece, riguarda migliaia e migliaia di parole, tratte da sette testi diversi, per quanto collegati, e per di più trascritte, del tutto involontariamente (posso giurarlo), in maniera letterale.
Circa un mese fa, come forse ricorderete, ho pubblicato su queste pagine A Londra col dottore. Era una specie di pastiche letterario, un divertissement che mescolava il racconto giallo con la guida turistica: in esso, infatti, facevo muovere alcuni “vecchi amici”, intenzionati a risolvere un increscioso mistero, tra le strade della capitale inglese, e li facevo finire, nel corso del loro peregrinare, in alcuni “punti d’interesse” che avevano colpito la mia curiosità, e che pure a me sarebbe piaciuto toccare (con alcuni, la risoluzione ha avuto successo) durante il viaggio in terra d’Albione che si stava svolgendo negli stessi giorni della sua uscita. Onestamente, non credo che A Londra col dottore, che pure è stato assai piacevole scrivere, abbia un gran valore; esso è dunque finito nell’oblio poco dopo il mio ritorno in Italia (che per altro è stato piuttosto traumatico), e lì sarebbe rimasto in eterno se, lunedì scorso, un evento che definirei quasi paranormale non fosse giunto a stimolare la mia memoria.
In quella giornata, infatti, su The LondoNerD, delizioso blog interamente dedicato alla città di Londra, che seguo da tempo e che ho consultato come fonte per le informazioni riportate in A Londra col dottore, è comparsa la prima puntata di quel racconto; al netto delle divergenze grafiche tra questo sito e quello, e del fatto che le fosse stato imposto (cosa su cui io avevo deciso di soprassedere) un titolo, Reale quanto il fantasma dei Canterville,essa era identica, parola per parola, a quella da me pubblicata lo scorso 10 maggio. Al ritmo di uno per mattina, nei giorni successivi, The LondoNerD ha fatto uscire anche le puntate successive della storia, fino a giungere, oggi, alla sua conclusione; tutte erano la copia carbone di quelle che voi avete letto, per così dire, “in anteprima”, trenta e più giorni fa. Ci ho messo del tempo, ad accettare che le mie parole stessero rivivendo lontano dal luogo in cui, credevo, sarebbero invecchiate e morte; superata questa particolare forma di lutto, o forse ancora nella fase di negoziazione, un interrogativo ha iniziato a tormentarmi.
Com’era potuto accadere? Dovevo scoprirlo.
La prima ipotesi da considerare, ovviamente, era quella del plagio: l’ho esclusa praticamente da subito. Chi scrive The LondoNerD mi sembra persona non solo onesta fin quasi al limite dell’ingenuità, ma anche dotata di un certo buon gusto; e questo avrebbe dovuto portarlo, qualora avesse voluto macchiarsi dell’inemendabile onta del plagio, a rivolgersi a qualcuno di più dotato, e degno dell’omaggio, rispetto al sottoscritto. Inoltre, la sua buonafede è evidente, visto che tutte le puntate di A Londra col dottore pubblicate su The LondoNerD riportano me come autore; questo, lungi dal far luce sul mistero, lo infittisce ulteriormente: in un articolo introduttivo, infatti, veniva spiegato che quella serie di post era la traduzione di un racconto uscito a puntate su sette numeri consecutivi del London Evening Times, scovati in un piccolo negozietto di Camden; ennesima circostanza inspiegabile, tali numeri del London Evening Times risalgono a quello stesso 1928 in cui io avevo deciso di ambientare le avventure dei miei protagonisti.
Alcuni di voi, mi rendo conto, arrivati a questo punto potrebbero farmi notare che esiste una parola magica in grado di spiegare perfettamente tutti i punti oscuri di questa faccenda: coincidenza; tale ricostruzione, tuttavia, sarebbe ad un tempo più sorprendente e più banale di ciascuna delle altre che è possibile immaginare. I sette testi che compongono A Londra col dottore assommano, nel complesso, a circa seimila parole totali; ignoro quante parole esistano nella lingua italiana o in quella inglese: fonti del Web mi dicono tra le centocinquantamila e le trecentomila; prendiamo centomila, come ipotesi più prudente. Ciò significa che, combinando casualmente tutte le parole disponibili in un vocabolario (sia esso di inglese o di italiano) le possibilità di riscrivere, parola per parola, A Londra col dottore (che per altro contiene quasi un intero capitolo che non è né in inglese, né in italiano, né in nessuna altra lingua conosciuta) sono una su centomila elevato alla seimillesima potenza: un numero talmente piccolo che, quando ho tentato di elaborarlo con una calcolatrice scientifica, quest’ultima mi ha restituito un messaggio di errore. D’altro canto, fin dai tempi in cui Max Planck e Albert Einstein fondarono la meccanica quantistica, sappiamo che, dato un tempo sufficientemente lungo, qualsiasi evento possa realizzarsi, effettivamente, si realizza: e dunque, la comparsa, a quasi cent’anni di distanza, su due mezzi di comunicazione così diversi, di due testi tra loro identici, il cui autore porta lo stesso nome (non ho infatti detto che anche nel London Evening Times A Londra col dottore è firmato da un tal Gaber Ricci), non dovrebbe essere motivo di sorpresa, ma solo la conferma che i modelli che stiamo usando per spiegarci la realtà sono, effettivamente, piuttosto accurati; ossia (ed ecco la banalità) che la realtà sta andando esattamente nel modo in cui dovrebbe andare, e grazie tante.
La citazione di Einstein, fortunatamente, permette di elaborare supposizioni meno tetre di quest’ultima: è stato infatti proprio il grande fisico di Ulm il primo a mettere in discussione il modo in cui, intuitivamente, pensiamo al tempo e, anzi, a gettare le basi per quelle teorie fisiche, oggi prevalenti, che vogliono il tempo non esistere; d’altronde, già negli anni Trenta, scrivendo ad un suo amico che aveva perso non ricordo più quale persona cara, Einstein notava come
le più recenti scoperte della fisica ci dicono che il tempo è solo un’illusione.
Mi piace immaginare che, quando vergò quelle parole, Einstein si trovasse a Londra, città in cui effettivamente risiedette, per alcuni mesi, nel 1933, quando sfuggiva alle persecuzioni che in Germania lo avrebbero colpito e in quanto ebreo, e in quanto antinazista. In quell’occasione, tenne una conferenza, assai partecipata, alla Royal Albert Hall; in quell’occasione risiedette in Lord North Street, nella City of Westminister: e questa è forse la circostanza, cosa dico, l’indizio che riveste più importanza per noi.
Lord North Street, che porta questo nome solo dal 1936, quando un amico di Winston Churchill, il quale evidentemente percepiva la decadenza dell’Impero, la fece così rinominare perché gli sembrava che fosse più maestoso, e che fino a quel momento si era chiamata, semplicemente, North Street, è poco più di un vicolo che corre tra Great Peter Street e Smith Square, in quello che Wikipedia definisce il cuore della politica inglese; in effetti, si trova a meno di mezzo miglio dal palazzo del parlamento e, in definitiva, è un luogo rappresentativo della buona società di Londra. Ed il punto è proprio questo: cosa diavolo ci faceva, un outsider come Einstein, in un posto del genere? Potrebbe darsi che l’uomo che ha scritto (in Pensieri di un uomo curioso) bisogna spartire il tempo tra la politica e le equazioni. Ma, per me, le nostre equazioni sono molto più importanti si sia rassegnato a vivere lì, perché in quel luogo si trovava un qualche motivo “professionale” di interesse, un punto in cui lo spaziotempo presentava quelle caratteristiche curiose che le sue adorate equazioni avevano previsto, e che lui voleva verificare di persona? Un punto in cui i concetti di presente, passato e futuro non esistevano? La supposizione, mi rendo conto, può sembrare temeraria… finché non si considera, quanto meno, che Londra è stata la città che ha fatto da sfondo a eventi come questo e che, al numero 42 di North Street, aveva sede, fino alla sua chiusura avvenuta nel 1947, il London Evening Times.
Escludo di aver mai letto, nella mia vita (o, almeno, prima di scrivere A Londra col dottore) il quotidiano in questione; non posso tuttavia escludere che qualcuno dei suoi redattori, o dei suoi collaboratori, abbia letto il mio blog: Einstein, passeggiando per la triste stradina in cui era andato ad abitare per scappare da un criminale coi baffi a spazzola, potrebbe aver trovato la prova che, in alcuni luoghi dell’universo, il tempo andava fuor di sesto e collassava su se stesso; uno scrittore in cerca di ispirazione potrebbe aver sfruttato quel luogo, su cui casualmente si trovava la sua scrivania, per intravedere un tempo in cui i testi si sarebbero fruiti a schermo, e non su carta, e, lettone uno, potrebbe aver deciso di riportarlo nei tempi suoi, firmandosi, come in una sorta di confessione, con uno pseudonimo, il mio, che sarebbe stato inventato solo di lì ad un secolo…
L’unica prova che posso fornire per questa ricostruzione, ovviamente, è il fascino che essa mi provoca; chi necessitasse di verifiche più empiriche può recarsi di persona a Lord North Street: ma devo mettervi in guardia. L’anonimo autore del London Evening Times, nel 1928, per aver avuto l’ardire di credere ad un tempo non lineare, ovvero di non credere più al tempo, subì una dura punizione: fu infatti costretto a leggere un racconto scritto da me; a voi, chissà, potrebbe andare ancora peggio.
Gaber Ricci (o Gaberricci, se preferite) è lo pseudonimo di un tipo strambo che si guadagna da vivere facendo il medico e impegna il tempo scrivendo e cercando di riprodurre fenomeni paranormali: insomma, la versione al negativo di sir Arthur Conan Doyle. Quando gli chiedono di descriversi in poche parole, risponde, come il suo blog dimostra: pigna, pizzicotto, manicotto e tigre.
Lui si definisce così. Seguo il suo blog da tempo, grazie al consiglio dell’amico Ivan Cenzi. La scrittura di Gaberricci è sagace, gli argomenti che affronta mai banali e ho adorato quel pezzo di bravura con cui ha vinto l’ultimo contest indetto da Bizzarro Bazar. Quando ho letto il suo racconto “A Londra col dottore”, uscito il mese scorso a puntate, gli ho subito proposto il ruolo di guest blogger sulle mie pagine. Ha accettato entusiasta e, insieme, abbiamo poi architettato la burla che è andata in scena la scorsa settimana. In quel giorno di otto anni fa visitai la bottega antiquaria di Camden Passage ma non trovai alcun numero dell’Evening Times (giornale che peraltro non è mai esistito). Io e Gaberricci confidiamo nel vostro perdono.
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