Questo post è il testo della presentazione che ho tenuto il 9 Marzo scorso al Cinema Odeon di Vicenza, prima della proiezione del film “Il ritratto del Duca”, con Jim Broadbent e Helen Mirren.
National Gallery, Trafalgar Square – Tube: Charing Cross
Tutto ebbe inizio nel Giugno del 1961, quando John Francis Godolphin Osborne, l’undicesimo e penultimo Duca di Leeds, decise di mettere all’asta trentadue dipinti appartenenti alla sua collezione. L’anno precedente aveva subito l’amputazione di una gamba a causa di una malattia e, avendo trascorso più di sei mesi in patria per la convalescenza (solitamente risiedeva in Francia o sull’isola di Jersey), il fisco inglese aveva bussato rumorosamente alla sua porta.
L’asta del 14 Giugno nella sede di Sotheby’s in New Bond Street fruttò al Duca la provvidenziale e ragguardevole somma di 283.180 sterline. Poco meno di metà di questa cifra arrivò dal pezzo forte della collezione, “Il ritratto del Duca di Wellington” dipinto da Francisco Goya nel 1814.
Ad aggiudicarselo per 140.000 sterline fu il magnate americano del petrolio Charles Wrightman, che però non potè godere a lungo dell’acquisto: il Governo inglese, infatti, lo ricomprò immediatamente pagandogli la stessa somma, dichiarando il quadro un’opera di interesse nazionale e facendo valere il suo diritto di prelazione. Il 3 Agosto, dunque, fu esposto nella sala numero XIII della National Gallery. Il ritratto del Duca, però, rimase al suo posto per pochi giorni, come vedremo tra poco…
Non dirò niente di più sul film di questa sera, ma mi permetto di intrattenervi brevemente per raccontare alcuni episodi curiosi. Ho selezionato infatti i più bizzarri furti d’arte avvenuti nella città di Londra.
Il primo che mi viene in mente risale al 1956. La mattina del 12 Aprile un giovane con un impermeabile scuro fu fotografato mentre scendeva senza fretta la scalinata antistante la Tate Gallery. Sotto il braccio teneva un oggetto rettangolare e piuttosto ingombrante, avvolto tra due spessi fogli di cartone.
Chiamò un taxi e sparì nel traffico. Con lui usciva dalla Tate Gallery una tela del 1879 della pittrice impressionista Berthe Morisot, intitolata “Jour d’Eté”.
L’autore del furto, l’irlandese Paul Hogan, aveva agito per rivendicare il diritto di Dublino di possedere i 39 dipinti del controverso lascito del mercante d’arte Hugh Lane. L’uomo era morto nel 1915 a bordo del transatlantico Lusitania affondato dai tedeschi e nel suo testamento aveva scelto l’Inghilterra come unico erede della sua collezione, salvo poi inserire all’ultimo un codicillo che indicava invece l’Irlanda. Il codicillo non era stato ritenuto valido da Londra, che aveva deciso di tenersi i quadri. Quarant’anni più tardi Paul Hogan, uno studente di una scuola d’arte, lasciò Dublino con l’amico Billy Fogarty e i due raggiunsero Londra per mettere in atto il colpo. Hogan staccò il quadro dalla parete, lo avvolse in due strati di cartone ed uscì dal museo senza essere disturbato. I visitatori pensarono si trattasse di un inserviente, tanta fu la naturalezza con cui agì. Il dipinto fu restituito pochi giorni dopo all’ambasciata irlandese.
Sui giornali il furto passò abbastanza inosservato, per non rendere evidenti le lacune del servizio di sorveglianza nella galleria e per non far passare Hogan e il complice come eroi o martiri della causa irlandese. Aiutò non poco il fatto che in quei giorni i quotidiani erano zeppi di servizi sulle imminenti nozze di Grace Kelly e Ranieri di Monaco.
Due anni prima, nel 1954, al Victoria & Albert Museum di Kensington era venuto alla luce un fatto incredibile: nel corso di 23 anni, un po’ alla volta, un custode del museo aveva asportato dalle sale qualcosa come 2.000 oggetti, tutti finiti ad arredare la sua modesta casa di Chiswick.
John Andrew Nevin, 58 anni, era andato a processo dopo che la polizia aveva setacciato l’abitazione in due diverse occasioni. Tra una perquisizione e l’altra Nevin e la moglie avevano tentato goffamente di occultare alcuni reperti. Gli agenti trovarono ben 21 custodie di spade e una statuetta di giada nel sacco dell’aspirapolvere, altre statuette dorate nel rivestimento isolante della cisterna dell’acqua calda. In una vasca pescarono una borsa con al suo interno preziosi orologi, irrimediabilmente rovinati.
In casa c’era anche un tavolino antico. L’uomo l’aveva portato fuori dal museo un pezzo per volta in più giorni, infilando le gambe di legno dentro i pantaloni e camminando senza farsi notare.
Nel Dicembre 2005, a un’ora circa da Londra, alcuni ignoti malfattori fecero sparire dal prato della Fondazione Henry Moore un’opera in bronzo dello scultore inglese, pesante ben due tonnellate e valutata almeno 3 milioni di sterline.
Per portarla via i ladri impiegarono un camion dotato di gru e agirono di notte. La scomparsa della statua fu notata soltanto il mattino successivo.
Gli investigatori pensarono dapprima ad un furto su commissione, poi cominciò a farsi strada un’ipotesi ben più assurda, che si rivelò fondata: la scultura di Moore era passata per le mani di un commerciante di rottami di Dagenham, fatta a pezzi e poi imbarcata per Rotterdam, da cui aveva proseguito in direzione della Cina. In cambio di poche migliaia di sterline aveva alimentato la grande domanda di metallo per componenti elettrici che all’epoca proveniva dall’Oriente.
Se oggi visitate la rinomata Dulwich Picture Gallery non mancate di passare per la galleria numero 5 per dare un saluto a Jacob de Gheyn III, il simpatico soggetto di un ritratto di Rembrandt del 1632.
Il quadro è poco più grande di un A4 e forse è proprio il fatto di essere quasi tascabile ad avergli fatto meritare il soprannome di “takeaway Rembrandt”: è stato infatti rubato per ben quattro volte, la prima nel 1966. Poi scomparve nel 1973, nel 1981 e nel 1983. In un modo o nell’altro fu sempre ritrovato e oggi è ancora al suo posto nella galleria numero 5. Ma sarà davvero lì in questo momento?
Il British Museum, gloriosa istituzione fondata nel 1753, non ha subito particolari attacchi nel corso dei secoli, soltanto qualche colpo sporadico. Ma la refurtiva del furto d’arte più eclatante della storia è conservata proprio qui, nella sala che ospita i marmi del Partenone.
Il colpevole? Si chiamava Thomas Bruce, conte di Elgin, ed era nel 1811 l’ambasciatore britannico presso il Sultano di Costantinopoli. Giunto ad Atene, allora parte dell’Impero Ottomano, Elgin si fece firmare un documento dal sultano che lo autorizzò ad asportare qualsiasi scultura o iscrizione dell’Acropoli, a condizione di non mettere a rischio la rocca. Così, nel 1816 il British Museum inaugurò la sala costruita appositamente per i marmi di Elgin, la Duveen Gallery.
Non è l’unico furto perpetrato dal museo, è soltanto il più evidente. Ci sono i magnifici bronzi del Benin, oggi reclamati dalla Nigeria. E troviamo un moai proveniente dall’Isola di Pasqua e rubato nel 1868 dall’equipaggio di una nave inglese.
Ci sono poi furti talmente leggendari da finire in un museo. E’ il caso del colpo alla Safe Deposit Company di Hatton Garden, compiuta nel weekend di Pasqua del 2015 da parte di una banda di pensionati, età compresa tra i 60 e i 76 anni.
Arrivarono alle cassette di sicurezza calandosi attraverso la tromba dell’ascensore e praticando un buco nella parete spessa cinquanta centimetri grazie ad un potente trapano elettrico con la punta diamantata.
Portarono via gioielli e denaro per un valore di circa 14 milioni di sterline e li nascosero temporaneamente nella tomba di famiglia di uno dei membri della banda nel cimitero di Edmonton.
Il colpo fece sensazione e occupò per mesi le pagine dei giornali. A breve l’intero caveau sarà trasportato e ricostruito (anche il famoso buco nella parete!) nella nuova sede del Museum of London, la cui apertura è prevista per il 2025.
Nel 1975 a Torino le Ferrovie dello Stato italiane, in una delle consuete aste in cui alienavano gli oggetti smarriti dai passeggeri sui sedili, vendettero ad un operaio della Fiat due quadri per un prezzo totale di 45.000 lire.
L’uomo li trovò interessanti e piacevoli, adatti ad essere appesi nella cucina del suo appartamento. Originario della Sicilia, una volta andato in pensione, fece ritorno al sud e dopo il trasloco attaccò nuovamente i due quadri alle pareti della cucina. Fu il figlio a covare i primi sospetti, dopo aver visto su un libro un dipinto molto simile nello stile a una delle due tele di casa.
Si scoprì così che, senza sospettarlo, l’operaio siciliano aveva avuto in cucina per quarant’anni due capolavori, uno firmato da Paul Gauguin (“Fruits sur une table ou nature au petit chien”) e l’altro da Pierre Bonnard (“La femme aux deux fauteuils”). Il primo quadro è valutato tra i 15 e i 30 milioni di euro.
Il Reparto Operativo Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri ricostruì la vicenda. Le tele erano state sottratte da ignoti nel Giugno 1970 dall’abitazione londinese di Mathilda Marks, figlia del fondatore della catena Marks & Spencer, scomparsa qualche anno prima. Uscite dall’Inghilterra, le opere d’arte erano poi finite a bordo di un treno diretto da Parigi a Torino e abbandonate chissà perché a bordo dello scompartimento prima di arrivare a destinazione, forse per paura dei controlli doganali. Le Ferrovie italiane le avevano depositate nell’ufficio oggetti smarriti della stazione di Torino e, come detto, le avevano messe all’asta qualche anno dopo.
La National Gallery, il museo protagonista del film di questa sera, subì nel 2020 un furto sui generis, mai visto prima: tutti i suoi quadri, con due eccezioni, finirono nelle case di tutto il mondo. O meglio, sugli schermi degli appassionati di Occupy White Walls, un videogioco il cui scopo è quello di costruire, curare a aprire al pubblico la propria galleria virtuale, costituita da opere realmente esistenti.
Sulle pareti apparvero i Girasoli di Van Gogh, la Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci, il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca e centinaia di altri capolavori. Invece di essere staccate dalla cornice con uno scalpello, in questo particolare tipo di furto le opere vengono semplicemente ritagliate grazie a Photoshop: Occupy White Walls attinge infatti al database delle immagini ad alta risoluzione disponibili sui siti dei musei di tutto il mondo e se ne appropria liberamente.
E’ il momento di ritornare all’Agosto del 1961, al furto del Ritratto del Duca di Wellington di cui parla il film. Un anno dopo la scomparsa del quadro, la polizia brancolava ancora nel buio. Eppure il dipinto di Goya fu visto nei cinema di tutto il mondo dagli spettatori del primo film dell’Agente 007, uscito a Londra il 5 Ottobre del 1962. Compare infatti nella scena in cui Sean Connery è all’interno del covo del Dr. No.
Lo scenografo del film, Ken Adams, raccontò in un’intervista come andarono le cose:
“Non vedevo perché il Dr. No non dovesse avere buon gusto e pertanto mettemmo insieme arredamento contemporaneo e antiquariato. Pensammo sarebbe stato divertente che lui possedesse opere d’arte rubate e usammo il “Ritratto del Duca di Wellington”, che all’epoca non era ancora stato ritrovato. Mi procurai una diapositiva dalla National Gallery – era venerdì e le riprese sarebbero iniziate il lunedì – e dipinsi un Goya nel fine settimana. Era piuttosto ben fatto e lo usarono per ragioni pubblicitarie ma, così come accadde all’originale, fu rubato mentre era esposto.”
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