Il cacciatore di aurore


Il treno per Gatwick quella mattina era in ritardo. Così sono andato a rintanarmi in uno di quei posti dove vendono acqua sporca al posto del caffè. Seduto su una panchina a congelarmi, ho stretto la tazza tra le mani per riscaldarmi, l’attrezzatura sulle spalle e gli occhi nascosti nel berretto comprato ad una ‘charity’ quella stessa mattina. Guardandomi attorno, cercavo strategie per difendermi dal freddo. Poi hanno annunciato che il treno era stato soppresso. Non ho aspettato altro per tornarmene a casa, sentivo troppo freddo.

A Gatwick avevo appuntamento con un tizio, un ragazzo tedesco di passaggio a Londra, uno che aveva pubblicato un servizio fotografico sulle aurore boreali.

«Un cacciatore di aurore», avevo spiegato alla mia compagna quando quella mattina, prima di uscire di casa, arrangiavamo come al solito la nostra colazione di fretta. «Una roba pazzesca», avevo aggiunto, per poi fermarmi a riflettere col coltello in mano fissando il burro che si scioglieva sul pane tostato. Mentre il burro si era sciolto, lei era già sgattaiolata a lavoro.

La mia compagna si chiama Laura e da un anno lavora con Facebook. Si occupa di marketing, l’anno scorso le hanno offerto un lavoro alla City. Le piace quel lavoro e io sono contento ne abbia trovato uno finalmente. Fino all’anno scorso non faceva che lamentarsi, voleva tornare a casa, diceva che la sua esperienza in Inghilterra era finita, che Londra era sfiancante, che è una città che ti divora. Si lamentava anche del fatto che non facevamo più l’amore e che, se un giorno avessimo voluto un figlio, l’avremmo dovuto condividere insieme ad altra gente, come l’ultimo rotolo di carta igienica, il kettle e lo stendino. Meno male alla fine l’hanno chiamata per quel lavoro e lei ha smesso di lamentarsi e di rinfacciarmi il fatto che, dopo anni che siamo qui, non ho ancora concluso niente di serio, che continuo ad andare in giro con la mia macchina fotografica appesa al collo come un San Bernardo con la sua borraccia, che sono ancora convinto che da grande farò l’artista, che ho speso tutto quello che avevo per comprare questo aggeggio – una volta è arrivata a rinfacciarmi che per un figlio non avrei mai speso tanto. Ma non è mica colpa mia se non ho ancora avuto successo. Bisogna avere fortuna, provo a spiegarle ogni tanto, o talento, puntualizza lei, o qualcosa di interessante da fotografare, vorrei ribadire, ma quest’ultima battuta me la risparmio. Il mio portfolio è pieno di sue foto e le sue foto, come tutte le altre, sono passate sotto gli occhi della gente senza lasciare tracce.

E poi l’altra sera ho scoperto il reportage di questo ragazzo. Me lo ha fatto vedere Pasquale, un mio amico che, come me, è venuto a Londra per fare il fotografo, ma poi è finito col fare altro. Eravamo a cena, le ragazze chiacchieravano nella living room, Laura si lamentava come al solito, mentre noi ce ne stavamo nel suo studio a guardare foto di partite di calcio, foto di paesaggi, di volti, di spazi lontani, foto di insetti, di strade, di macchine, di gente, foto sospette, quando alla fine ci imbattiamo nei lavori di questo tizio, un ragazzo tedesco poco più che ventenne, partito per andare a caccia di aurore, mai più tornato indietro, così si leggeva sul sito. «Lui sì che è uno forte», commenta il mio amico, mentre non so che rispondere. Guardo l’orologio, «si è fatto tardi» dico al mio amico, io e Laura il giorno dopo ci saremmo dovuti svegliare presto.

Quella sera, mentre ce ne tornavamo a casa, mentre Laura non faceva altro che parlare della cena, di quello che avevamo mangiato, della nuova casa dei nostri amici, io invece avevo come un tarlo in testa che mi divorava i pensieri. Finalmente avevo capito cosa mi mancava, avevo sempre saputo di voler fare il fotografo, ma non avevo mai avuto una vera motivazione nel farlo. Mi mancava una motivazione, ecco. Così, quando sono tornato a casa, mentre Laura dormiva, io continuavo a guardare le foto di quel tizio, senza pensarci troppo gli ho scritto e ho scoperto che dopo qualche giorno sarebbe passato per Londra.

Ci siamo dati un appuntamento. Ed era per questo che mi trovavo alla stazione di London Waterloo quella mattina, ad aspettare il treno per Gatwick. Ma faceva freddo, il treno non arrivava e improvvisamente ho cominciato a sentirmi stanco, così me ne sono tornato a casa.

Sono tornato a casa a piedi. Almeno, se arrivo a casa stanco, ho pensato, ho un motivo per esserlo: aver attraversato mezza Londra camminando, coi piedi così freddi nemmeno fossero scalzi, il naso che brucia come colasse lava, le mani tanto fredde che, mi viene da pensare, se anche incontrassi qualcosa di interessante da fotografare, non avrei nemmeno la forza di tirare fuori la macchina fotografica per riportare a casa finalmente lo scatto del secolo. Così alla fine, esausto, mi sono deciso a prendere la metropolitana, ma sulla strada di casa, senza un motivo preciso, ho deciso di continuare a camminare passando per Newham. Andavamo sempre da quelle parti io e Laura, quando ci bastava girare Londra per sentirci importanti, masticare quattro parole di inglese in croce per avere la certezza che quello che stavamo facendo era da gente che ha coraggio. Ci sentivamo coraggiosi e forti, ci sentivamo belli quando, dieci anni fa, ci bastava venire a passeggiare al parco più sfigato di Newham per sentirci al centro del mondo.

E così pensavo a Laura, ai miei primi capelli bianchi, pensavo a qualsiasi cosa non mi facesse pesare il freddo, quando da lontano ho visto un gruppo di gente accalcata. Smaniavano tra loro come se stessero soccorrendo un pover’uomo colto da un accidente. Qualcuno urlava, qualcun altro ha cominciato a correre, e poi la folla, improvvisamente, si è sparpagliata per lasciar passare una donna. In braccio stringeva un fagotto, ci ho messo un po’ a realizzare che si trattava di un bambino.

«Dobbiamo portarlo in ospedale», urla un uomo, e un altro prende la donna col bambino e la trascina con sé. Era un neonato, riesco a scorgere il suo viso di sfuggita.

Avrei dovuto fotografarlo, ma ho le mani bloccate da quel viso rosso, come le mie mani, dagli occhi stretti, come chi fa un brutto sogno. Solo dopo qualche ora, ho scoperto che si trattava di una bambina.

L’ho scoperto al telegiornale, mentre io e Laura cenavamo. Lei avrebbe sempre voluto una bambina. Per tutta la cena, ero lì lì per raccontarle che c’ero anche io a Newham e che quella povera creatura abbandonata in un parco mi aveva ricordato che nascere fa male e ti fa diventare il viso tutto rosso. Non era stato necessario salire verso le altezze boreali per realizzarlo. Ma poi non le ho detto niente. Sapevo cosa avrebbe risposto, avrebbe detto che mi sono fatto sfuggire la foto del secolo.

«Hai sentito della bambina che hanno trovato qui a Newham?», mi ha chiesto poi Laura, mentre eravamo a letto. «E’ una femmina», ha detto mentre spegneva la luce e si girava a dormire dall’altra parte.

Quella notte rimasi per tutto il tempo col fiato sospeso a fissare il soffitto.


Ilaria Paluzzi è nata in Abruzzo nel 1985. Dopo aver studiato a Roma, e per qualche mese in Portogallo, è tornata in Abruzzo per diversi anni. Attualmente vive in Inghilterra, vicino Londra, città dalla quale continua a scrivere, mentre lavora come barista. Ha pubblicato due romanzi, Riva, con la casa editrice Bookabook, e La parte sinistra del cuore, con la Bakemono Lab. Ha collaborato con diversi giornali e progetti, di cui il più importante è quello che l’ha coinvolta come scrittrice per la collana Dafni&Cloe, rivista di alto spessore dedicata all’adolescenza, nella difesa della sua bellezza. Attualmente Ilaria Paluzzi sta scrivendo tante cose, alcune belle, altre meno, alcune importanti, altre si lasceranno andare insieme al tempo. Una cosa sola, lei dice, le resterà tra le mani, tra una città e l’altra, suggerita da una storia, urlata a gran voce in una voce in un’altra: scrivere e raccontare non è solo un’esigenza, ma è necessario, perché gli altri comprendano, perché nessuno dimentichi.

Londinesi – Storie di gente oltre confine è il suo blog. Seguitelo.

La foto che apre il racconto è di Davide Rapacchiale.

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