“The Elephant Man” e gli altri. Una breve storia dei freak shows a Londra

259 Whitechapel Road – Tube: Whitechapel


L’uscita nelle sale italiane della versione restaurata di “The Elephant Man”, il capolavoro di David Lynch, è l’occasione per fare un viaggio a ritroso nel tempo e tracciare una breve storia dei freak shows nella capitale inglese.

Il termine italiano più efficace per tradurre questa espressione è “fenomeni da baraccone”: l’esibizione di esseri umani con un aspetto insolito o anomalo. Persone che raggiungevano altezze straordinarie o, al contrario, erano affette da nanismo; individui che avevano rare malformazioni o malattie che avevano stravolto il loro fisico; che avevano caratteri sessuali secondari tipici del sesso opposto; che avevano il corpo coperto da tatuaggi o piercing; a volte, più semplicemente, persone che avevano un diverso colore della pelle.

Il pubblico accorreva numeroso a questi spettacoli itineranti, che si tenevano nelle fiere di paese o nelle taverne, e pagava volentieri il prezzo del biglietto per osservare da vicino i protagonisti. Era l’occasione per scrutare corpi diversi dal proprio, per avere una rassicurazione sulla propria “normalità”.

Il viaggio nel mondo dei freaks è zeppo di fatti incredibili, un viaggio a volte doloroso e commovente, e spesso e volentieri ha visto la città di Londra al centro degli avvenimenti.

Si può partire dai tempi di Carlo I. Alla sua corte furono invitati nel 1630 i gemelli siamesi Lazzaro e Giovanbattista Colloredo, che venivano da Genova.

Lazzaro era a prima vista perfettamente sano e, quando non si esibiva in giro per l’Europa per guadagnarsi da vivere, era solito indossare un ampio mantello.

Mantello che serviva a celare il fratello parassita Giovanbattista, che sporgeva dal petto di Lazzaro con la sola parte superiore del corpo e la gamba sinistra. Teneva gli occhi sempre chiusi e la bocca spalancata.

Pare che ad un certo punto della sua vita Lazzaro fu condannato a morte per aver ucciso un uomo. Scampò all’esecuzione facendo notare al giudice che in questo modo sarebbe morto anche il suo gemello innocente.

Nel 1691 il navigatore inglese William Dampier, al ritorno da uno dei suoi viaggi, portò a Londra uno schiavo originario delle Filippine, di nome Jeoly.

L’uomo, che aveva il corpo quasi completamente ricoperto di tatuaggi, fu venduto al miglior offerente da Dampier, che aveva un disperato bisogno di denaro, e fu obbligato dal suo nuovo padrone ad esibirsi per tre mesi in una taverna della City. Poi morì, a causa del vaiolo.

La storia di Matthias Buchinger è davvero difficile da credere ma assolutamente autentica.

Nacque in Germania nel 1674, privo delle mani e della parte inferiore delle gambe, ed era alto appena 74 centimetri.

Arrivò a Londra all’età di 40 anni e stupì immediatamente il pubblico accorso ad assistere ai suoi spettacoli, in primis il re Giorgio I.

Nonostante non avesse le mani (al loro posto c’erano delle protuberanze simili a delle pinne), era in grado di far passare un filo attraverso la cruna di un ago, sapeva suonare una quantità di strumenti musicali, faceva comparire dal nulla una colomba che prendeva il volo davanti agli occhi sbalorditi dei presenti. Ma non è tutto.

Aveva infatti un talento innato per il disegno e la calligrafia: al termine degli spettacoli vendeva le sue illustrazioni, che erano maniacalmente minuziose. E’ celebre un suo autoritratto che, se ingrandito, svela un dettaglio incredibile: i ricci della sua capigliatura sono composti dal testo di diversi Salmi e dal Padre Nostro.

Matthias Buchinger si sposò quattro volte e da queste unioni nacquero ben 14 figli.

Circa un secolo dopo, varcò i cancelli di Buckingham Palace un certo Józef Boruwłaski, che veniva dalla Polonia e si era autoproclamato conte.

Era alto poco meno di un metro e il futuro Giorgio IV si divertiva a farlo salire sulle proprie ginocchia, per poi rimpinzarlo con dolcetti e caramelle.

A Londra il conte Boruwłaski si esibì in qualche occasione accanto ad altre due celebrità dell’epoca.

Il primo era Patrick Cotter O’Brien, un irlandese che raggiungeva i 2 metri e 46 centimetri di altezza e morì giovane proprio a causa di patologie legate al gigantismo.

Il secondo si chiamava Daniel Lambert ed era originario di Leicester. Era stata la povertà, all’età di 36 anni, a costringerlo a trasferirsi a Londra per esibirsi di fronte al pubblico in qualità di uomo più pesante del mondo. Faceva pagare un biglietto d’ingresso per accedere al suo appartamento al numero 53 di Piccadilly.

Ebbe la fortunata intuizione di non affidarsi ad un impresario e per questo motivo mise da parte un considerevole gruzzolo.

Dopo qualche mese, stanco di quella vita e delle domande ripetitive dei suoi ospiti (riceveva a volte 400 persone al giorno!), si decise a tornare a Leicester, dove aprì un allevamento di cani. Morì tre anni dopo, quando aveva raggiunto il peso di 335 chilogrammi. La sua bara, per essere trasportata, fu dotata di ruote.

Ben più triste è la storia di Sarah Baartman, la Venere Ottentotta.

Nata nel 1789 da una famiglia di etnia khoikhoi in quello che oggi è il Sudafrica, rimase presto orfana e fu ridotta in schiavitù, lavorando per una famiglia di boeri a Città del Capo. A 21 anni, con la promessa di un futuro migliore, fu deportata a Londra.

Ragazza intelligente, dotata di un’ottima memoria e che parlava fluentemente l’olandese, fu crudelmente esibita in spettacoli itineranti in tutta l’Inghilterra. La steatopigia, caratteristica genetica di alcune popolazioni africane, aveva reso enormi le sue natiche e un’altra patologia faceva sì che le sue piccole labbra (coperte da uno straccio) sporgessero per oltre 8 centimetri.

La povera Sarah, legata ad una catena, camminava a quattro zampe davanti al pubblico che, inutile dirlo, affollava i suoi spettacoli.

Morì a 25 anni a causa del vaiolo, a Parigi. I suoi resti furono esposti al Musée de l’Homme e si è dovuto aspettare il 2002 per darle finalmente una sepoltura nella sua terra di origine, dopo una battaglia di civiltà condotta tra gli altri da Nelson Mandela in persona.

In alcune occasioni accadeva che venissero portati davanti alla folla dei casi umani che tali non erano.

E’ il caso della leggenda della “Donna con la Faccia da Maiale”.

Poco prima del 1640, simultaneamente, comparvero in Olanda, Francia e Inghilterra dei racconti che avevano come protagonista una donna molto ricca, con le fattezze di un normale essere umano e un orribile volto suino, frutto di una maledizione.

Ad un certo punto, però, nei decenni successivi, si moltiplicarono gli avvistamenti, in ogni parte d’Europa. A Londra, in particolare, tra la fine del 1814 e l’inizio dell’anno seguente, si sparse la voce che a Manchester Square vivesse reclusa in casa una donna con la faccia da maiale.

Cosa pensarono quindi gli spregiudicati impresari dell’epoca, per fare un po’ di denaro facile? Diedero in pasto al popolo la prova che una tale donna esistesse!

In una fiera tenutasi in Hyde Park nel 1843, un cartellone annunciava la presenza di Madame Steevens, la “Magnifica Donna con la Faccia da Maiale”.

Madame Steevens era in realtà un orso, appositamente stordito da una grande bevuta di birra, a cui era stato rasato il volto e a cui era stata infilata in testa una parrucca. Vestito con abiti femminili, veniva fatto sedere e legato, con le zampe inferiori infilate dentro le scarpe e quelle superiori in un paio di guanti. Anche gli arti superiori erano depilati.

Attraverso un buco nel retro della sedia un inserviente, non visto, colpiva il povero animale con un bastone. I suoi grugniti erano le risposte alle domande degli spettatori. La donna-maiale – così spiegava il presentatore – capiva tutto ma non era in grado di parlare a causa della conformazione delle fauci.

Nell’ottobre del 1882 giunse a Londra, proveniente dal Siam, una bambina di appena sei anni di nome Krao. Soffriva di ipertricosi e aveva il corpo ricoperto da una foltissima peluria.

Krao fu presentata al pubblico come un esempio dell’anello mancante tra la scimmia e l’essere umano, la prova vivente dell’allora recente teoria dell’evoluzione di Charles Darwin.

Per questo motivo divenne immediatamente una delle stelle dello spettacolo del Grande Farini al Royal Aquarium, accanto a Zazel, la prima donna cannone di cui vi ho raccontato recentemente e al “Greco Tatuato”.

I freak shows, perennemente in evoluzione, e sempre in grado di stupire il pubblico con nuove attrazioni, continuarono per tutto l’Ottocento e, all’inizio del secolo successivo, non erano ancora passati di moda.

Le cronache riportano la triste storia di Mary Ann Bevan, “La Donna più Brutta del Mondo”.

Nata in un sobborgo di Londra, sposata e madre di quattro figli, rimase presto vedova e all’età di 32 anni cominciò a soffrire di acromegalia, una patologia che alterò i suoi lineamenti.

Per sopravvivere e per sfamare i figli si fece assumere da un impresario e girò l’Inghilterra. Finì i suoi giorni a Coney Island, il parco dei divertimenti dei newyorkesi, umiliata e derisa ogni giorno.

Oggi riposa nel cimitero di Brockley, a sud di Londra.

Anche il protagonista di una storia che ho raccontato di recente fece l’esperienza dei sideshows: il colonnello Barker, all’anagrafe Valerie Arkell-Smith, il primo cross-dresser diventato una celebrità in Inghilterra.

Dopo i primi mesi di notorietà, per sopravvivere si esibì come fenomeno da baraccone nella città di Blackpool: gli spettatori pagavano il biglietto per osservare dall’alto due letti.

In uno c’era il colonnello Barker, nell’altro una donna in camicia da notte. Il fatto di aver pagato l’ingresso consentiva al pubblico di ricoprire di insulti la coppia, che subiva in silenzio.

Ho volutamente lasciato per ultima la storia di Joseph Merrick, “The Elephant Man”.

Era nato a Leicester nel 1862. Fino ai tre anni di età il suo fisico non aveva nulla di anormale, poi cominciarono a comparire delle cisti sul lato sinistro del suo corpo. Con il passare degli anni la situazione peggiorò, tanto che, quando rimase orfano della madre e il padre si risposò, la matrigna lo cacciò fuori di casa.

Il povero Joseph si ritrovò da un giorno all’altro in mezzo ad una strada, umiliato e deriso dai passanti, e a diciott’anni fu costretto a lavorare nella rigida e inospitale Union Workhouse di Leicester. La abbandonò qualche anno dopo, mettendosi nella mani di un impresario, Sam Torr, che lo battezzò “The Elephant Man” e lo fece esibire in tutta l’Inghilterra.

La sua pelle era spugnosa e cadente ed emanava un odore insopportabile, il suo cranio era enorme. Il labbro superiore era sporgente e ricordava una proboscide (il motivo del suo soprannome) e il braccio e la mano destri erano deformi. Una caduta in tenera età non era stata curata a dovere e lo aveva lasciato zoppo.

Giunse per la prima volta a Londra nell’inverno del 1885, affidato allo spregiudicato impresario Tom Norman da Sam Torr, l’uomo che fino a quel momento lo aveva fatto esibire in tutta l’Inghilterra.

Norman, che aveva firmato il contratto prima ancora di vedere Merrick dal vivo, rimase sconvolto dalle sue fattezze e, temendo un possibile fallimento, decise di mostrarlo al pubblico nel retro di un negozio al numero 259 di Whitechapel Road. Tra gli spettatori che vennero ad osservarlo ci fu il dottor Frederick Treves, che lo portò al Royal London Hospital per sottoporlo a degli esami e studiare la sua condizione.

Nel 1886, quando la polizia chiuse lo show dopo moltissime segnalazioni sull’oscenità dello spettacolo offerto dal povero Merrick, Tom Norman si sbarazzò di lui e lo consegnò nelle mani di un altro impresario privo di scrupoli che lo portò lontano da Londra, in Belgio. Non ebbe successo nemmeno lì e fu abbandonato dal manager, che gli sottrasse tutto il denaro.

Merrick ritornò rocambolescamente a Londra, nella stazione di Liverpool Street. Era il 24 Giugno del 1886. Non aveva soldi, non aveva un lavoro, non era nemmeno in grado di parlare.

Aveva però conservato il biglietto da visita del dottor Treves. Il medico giunse in suo soccorso e lo portò in ospedale, dove fu ripulito, sfamato e confinato in una stanza dell’attico.

Iniziò così il periodo più felice della sua breve esistenza, gli unici in cui ricevette un po’ di affetto e di calore umano.

Una sottoscrizione in suo favore portò la sua vicenda alla ribalta e Merrick cominciò a ricevere molte visite, addirittura da parte di membri della famiglia reale. Si rivelò un uomo intelligente e sensibile, che si innamorava facilmente delle donne che lo andavano a trovare e scriveva lunghe lettere piene di romanticismo.

Fu trovato morto nel suo letto l’11 Aprile del 1890. Il peso della testa aveva spezzato le vertebre cervicali. Lui, che poteva addormentarsi solamente seduto, con la testa tra le ginocchia, aveva provato a dormire come tutti gli altri.

Era morto a 27 anni appena, per aver provato ad essere “normale”.

Oggi il negozio di Whitechapel Road dove i londinesi videro The Elephant Man per la prima volta esiste ancora ma ha cambiato aspetto: è allegro e variopinto e vende abbigliamento e gioielli tradizionali indiani.

Proprio di fronte c’è la facciata del vecchio Royal London Hospital.

In questo edificio Joseph Merrick visse gli ultimi anni, studiato e accudito dal dottor Treves.

Poco distante da qui c’è il piccolo museo dell’ospedale, nella cripta della chiesa di St. Augustine with St. Philip’s. Troverete una replica dello scheletro di Merrick, il velo con cui veniva nascosto dalla vista dei passanti e alcune sue lettere.

Ma l’oggetto più commovente è lo stupefacente modello in carta della cattedrale di Mainz, che egli costruì durante i lunghi giorni passati in ospedale.

Ancora oggi, nel ventunesimo secolo, l’esibizione dei fenomeni da baraccone non è scomparsa. Chiusi i circhi e i sideshows, li vediamo in televisione, in trasmissioni che mostrano la vita quotidiana di personaggi bizzarri o che soffrono di gravi disabilità.

Sono l’equivalente moderno dei freak shows di un tempo. Rispetto al passato c’è senz’altro un atteggiamento compassionevole e politicamente corretto e i protagonisti sono presentati in maniera positiva, per il coraggio con cui affrontano la propria condizione.

Ma la logica è in fondo la stessa: fare ascolti per guadagnare soldi.

Sembra proprio che non abbiamo fatto molti passi avanti rispetto ai tempi di Joseph Merrick, “The Elephant Man”.


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